Roma- Un Primo Maggio all’insegna della cultura si è tenuto in zona Cornelia grazie ad un’originale iniziativa firmata Lista Tsipras, che ha organizzato una “full immersion “botanica e archeologica nel cuore della Pineta Sacchetti.
A guidare l’escursione, il Professor Settimio Cecconi, laureato in archeologia e grande conoscitore del Parco, il quale ha mostrato gli angoli più nascosti del “polmone romano”, condendo la visita con aneddoti e curiosità di estremo interesse.
Il parco del Pineto fu voluto fortemente dai cittadini della Capitale, che negli anni ’70 si batterono per mantenerlo tale, nonostante il piano regolatore di Roma avesse approvato la realizzazione di trecentomila metri cubi di cemento. Il progetto fu firmato dall’architetto “progressista” Gae Aulenti, ma fortunatamente non fu portato a termine ed oggi la capitale conserva questa straordinaria oasi di verde.
Ma ecco in cosa consiste l’incommensurabile patrimonio del Parco.
“In soli 240 ettari di terreno” afferma Cecconi” abbiamo la più grossa ricchezza floristica di Roma. Si tratta della biodiversità vegetale più completa, basti pensare che sono state censite 685 piante. Considerando che tutte le piante d’Italia sono circa 6000, una pianta su 9 è presente all’interno del Parco. Tra le varietà: piante umide e piante tipiche della macchia mediterranea. C’è addirittura una varietà di mirto, chiamato appunto” il mirto del Pineto “, con il quale si realizza la deliziosa bevanda.”
“Il censimento” continua il professore ” fu realizzato da uno dei più grossi botanici italiani,il generale Giuliano Montelucci che, sebbene avesse studiato la zona sin dagli anni ’30, nel 1954 scrisse un articolo sulla Valle dell’Inferno. Fu lui, prima della guerra, a proporre di farne un’area protetta.”
Come detto, il Parco non ha soltanto un patrimonio naturalistico di grande rilevanza, anche dal punto di vista storico la sua ricchezza è incalcolabile.
“Al Pineto sono state trovate testimonianze archeologiche del primo “romano”, il primo “homo sapiens” di Roma, di “industria Uluziana” , una cultura materiale del paleolitico.
Si chiama “uluziana” perché è stata trovata nella grotta di Uluzio, nel salento”. Nel Lazio questa è la seconda scoperta dell’industria Uluziana: la prima è avvenuta lo scorso anno ad Anzio e la seconda, (la prima di Roma) è avvenuta qui al Parco. L’uomo sapiens romano, sprannominato simpaticamente “homo sapiens pinetensis” è dunque nato nel Pineto e non altrove.”
“Per quanto riguarda il periodo neolitico non vi sono testimonianze di rilievo, così come non ne abbiamo in epoca etrusca, anche se a poca distanza si trova il sistema di villaggi fortificati che separava “l’ager romano” dal territorio del Vejo. I villaggi rinvenuti vanno dalla Cassia fino all’Aurelia e l’ultimo in ordine cronologico è stato trovato in zona Lucchina, dove è stata scoperta una necropoli. Un ‘altro si trova poi a S.Agata, uno nella tenuta dell’ Acquafredda, l’ultimo verso via Cortina d’Ampezzo”.
In questa area c’erano piccoli insediamenti chiamati dallo storico Livio i “sette villaggi”. In età romana poi la zona venne infrastutturata, così furono costruite via Trionfale,(che ricalcava un tracciato protostorico) via Aurelia, Villa Pamhpili e via Cornelia. La via Pineta Sacchetti era invece una strada di raccordo fra l’Aurelia e via Trionfale, ma anche una strada di servizio”, basti pensare che a soli 50 metri ci sono i resti dell’acquedotto Paolo Traiano, che collegava Bracciano a Trastevere passando per il Gianicolo. Trastevere, oltre a non avere alcun acquedotto era l’area industriale dove si trovavamo i celebri “molini” del Gianicolo , assai importanti per Roma , ma non serviti da acqua potabile. Una parte del Traiano venne utilizzato per alimentare appunto le pale dei mulini.”
Ma le curiosità non si esauriscono e così l’archeologo ci sorprende con notizie che in pochi conoscono.
” Lo scorso anno a 200 metri dalla biblioteca, durante scavi d’emergenza, la soprintendenza ha trovato una serie di resti, tra cui una cisterna e una necropoli del V secolo dopo cristo, quando Roma era stata ridotta a un “paesone”. Ricordiamo a tal proposito che all’epoca erano arrivati i Goti, (455 d.c) pertanto è interessante che nell’area vi fossero ancora insediamenti. Le tombe sono fatte all’interno di anfore e sono state trovate recentemente al Testaccio, in magazzini che si estendevano per36 mt quadri”.
Continuando l’excursus storico, fino a toccare l’epoca romana, il Professore aggiunge ” Questa zona apparteneva forse a un luogo chiamato “fundus lardarius”,dopo il 6/7 sec, l’autorità bizantina si indebolì e i Papi si allargarono e l’area si trovava all’interno di un “circuito martiriale”.
Utile ricordare che all’epoca andava di moda il turismo religioso e la gente veniva da tutta Europa per visitare i santi .
Come sostiene Ceccone ” la gente faceva testamento prima di partire pur di visitare Roma, per cui erano stati creati dei circuiti sulle chiese e martiri da visitare. In zona nord, il giro partiva da Porta S.Pancrazio, per poi toccare Villa Pamphili e le Catacombe di Calepodio, (le più antiche di Roma), situate vicino alla scuola Romagnoli, dove si trovano ancora i suoi resti. Lì fu sepolto anche Papa Callisto (quello delle omonime catacombe) ma successivamente fu trasferito. Il giro terminava probabilmente con la chiesa di S. Agata o Madonna del Riposo ,se non a Monte Ciocci. Poi i pellegrini tornavano indietro a andavano a S.Pietro”.
Curioso l’aneddoto raccontato dal professore ” I pellegrini pensavano che avere un osso del martire portasse fortuna, dunque le catacombe furono chiuse per evitare che venissero portati via tutti i resti. S. Agostino riferisce in una lettera che i pellegrini andavano a mangiare e bere a S. Pietro dove si ubriacavano”.
Per secoli dunque la Pineta ha fatto parte del giro martoriale, ma era preziosa anche per la presenza di acqua, per il terreno fertile, il clima ideale e per i venti del mare che rendevano l’area più fresca rispetto all’intero bacino romano.
Se per tutto il medioevo la Pineta fu gestita direttamente dalla chiesa, successivamente subentrarono le famiglie nobili, che hanno dato i nomi : la pineta Sacchetti si chiama così perché il pigneto era esteso e aveva una funzione produttiva. I pinoli erano utilizzati nell’industria dolciaria e rappresentavano una grande rendita economica.
“I Sacchetti hanno costruito nel 600 un edificio paragonabile al villino di villa Pamphili. Un giorno Pietro da Cortona, scultore e architetto amico del principe Sacchetti, fece una passeggiata con lui. A un certo punto i due videro una bellissima sorgente (ancora oggi c’è e una grotta con stalattiti e stalagmiti).
In seguito, Sacchetti, Pietro da Cortona e Bernini andarono dal Papa e il Bernini disse a Pietro “ho saputo che hai fatto una capannuccia come un presepe nella tenuta del Sacchetti”: per ripicca Pietro e il principe realizzarono il palazzo. Esso fu tuttavia edificato in una zona argillosa e nel giro di pochi anni franò.
Fu un vero peccato anche perché era diventato un luogo del “gran tour” di intellettuali del 600 e 700, tanto che Montesquieu raccontò di averlo visitato”.
Successivamente i Torlonia comprarono la tenuta, che era suddivisa a zone: nella zona est c’era il grano a sud i frutteti e le vigne, che producevano vini prelibati come la malvasia. Ancora adesso si possono trovare le tracce di un casaletto con i resti del Traiano, il muro reticolato costruito a 45°, oltre a un frammento di orcio per stoccare l’olio.
Alla fine dell’800 fu inoltre realizzata una stazione di zooprofilassi, perché in epoca positivista si cominciò a controllare il bestiame a scopo preventivo e vennero anche sfruttate le cave di età romane, mai studiate in maniera seria. Infine, negli anni 60 il borghetto dei fornaciari fu quasi distrutto ma salvato da pochi intellettuali”.
Fin qui la premessa storica del professore, che raccogliendo le adesioni dei curiosi partecipanti, improvvisa un’escursione assi interessante nei meandri della Pineta.
” Come fauna abbiamo volpi, istrici, falchetti che nidificano ogni anno, ma non ci sono vipere. Le collinette invece erano anticamente le spallette a grano. La parte superiore, fatta eccezione per i materiali da riporto, è formata da materiali vulcanici provenienti dal lago di Bracciano”.
” Nel Pineto”, prosegue Cecconi ” si trova il massimo punto più a nord di un prodotto vulcanico proveniente dai colli Albani ,dove vi fu un’esplosione in cui il magma incontrò acqua a trenta km di altezza. Grazie all’azione dei venti il magma fu trasportato fino a qui”.
Assai interessante poi la lezione di botanica “Tra le piante che incontriamo: il sambuco ottimo per fare le frittelle e la bardana, una pianta dalle foglie larghissime e soffici utilizzata dai contadini come carta igienica, per non parlare dell’ equiseto, una pianta dura assai particolare. L’equiseto ha 200 milioni di anni, esisteva nell’epoca dei dinosauri e si chiama anche “coda di cavallo”. Ha un fusto duro ed ha bisogno di tantissima acqua. La particolarità, dal punto di vista botanico ,sta nel fatto che i rami sono sterili e non si possono riprodurre, mentre la parte che sta sottoterra ha un cappuccio lungo, con sporangi utili per la riproduzione. Dopo aver lanciato le spore, l’equiseto 1 muore e qualche giorno dopo nasce l’equiseto 2, quello sterile. La pianta e’ dura perché fissa il silicio. Incontriamo poi il ranuncolo, una pianta velenosa che indica la presenza d’acqua”.
Dopo la lezione di botanica, il professore ci illustra le diverse zone geologiche: addirittura nel giro di pochi metri possiamo vedere un milione di anni del Pineto. Ecco la spiegazione.
“Siamo a 50 mt dal livello del mare, ovvero all’interno del bacino romano. Roma durante il pliocene (5 milioni di anni fa), aveva un mare profondo 800 mt. Quando in epoca fascista, nel 1936 fecero delle trivellazioni al Circo Massimo, fu rilevata la presenza di argille, al cui interno vi erano delfini, balene ecc. Il mare era profondo e caldo”.
1800 anni fa finì il Pliocene ma a Valle Aurelia, nel punto in cui ci ha condotti il professore, si può vedere ancora oggi il passaggio preciso fra pliocene e pleistocene.
“Ci sono sabbie gialle superficiali che coprono le argille, il basamento di tutto il bacino romano. A partire da 2 milioni di anni fa ci sono stati fenomeni di alzamento del maree abbassamento della terra, che noi possiamo seguire nel giro appunto di pochi metri: dal mare profondo, si è passati a mare di media profondità a mare basso, fino al luogo dove c’era la foce di un fiume che ha dato origine a un luogo con dune fossili, ovvero la spiaggia dell’epoca, pochi metri più su. In questa spiaggia di dune giravano liberamente elefanti, ippopotami, rinoceronti ecc. Andando su, le argille grigie di mare profondo lasciano il posto alle sabbie gialle portate dai monti (la linea di costa stava verso Palombaro Sabina). Salendo ancora più su, il mare è sempre più basso e ci sono sabbie marine”.
E’ qui che incontriamo quelle che in gergo tecnico si chiamano”le mozzarelle”, pezzi di sabbia compatta e sedimentata; infine arriviamo a 500 mila anni. Il professore afferma che ci sono rocce “in posto”, cioè arenarie di sabbie fossili cementate e indurite. La particolarità di queste arenarie è che all’interno ci sono impronte fossili di corrente di acque basse. Esse sono una foto di come era il mare 700 mila anni fa”.
Continuiamo l’escursione fino alla foce fossile dove sfociava appunto il fiume o il torrente e poi arriviamo fino alla sua parte finale, dove si trovano le dune fossili. Ci sono sabbie con ciottoli, poi la foce, la fase in cui un torrente arriva al mare. A destra e a sinistra, in stratigrafia, possiamo anche osservare le sabbie con ciottoli, l’antica linea di costa, e il posto dove il fiume arrivava al mare (luogo strettissimo). Per finire, si apre alla nostra vista il meraviglioso panorama delle dune fossili dalle sabbie rosse che ricordano il canyon, regno del cisto in fiore.
In lontananza si vedono l’antico Borghetto e la Fornace.
Cecconi afferma “Qui c’è la prima testimonianza dell’emersione: il Tevere non stava qui, ha cambiato corso varie volte e dopo 700 mila anni il quadro geologico si è stabilizzato”.
“Dal punto di visto botanico siamo nel cure della macchia mediterranea: dominano l’erica e le sughere. Esse tuttavia hanno meno di 70 anni ,perché dopo la guerra la gente non sapeva come scaldarsi e li usò a tale scopo”.
“La sughereta è una forma particolare di macchia, vuole più più fresco rispetto alla leccese, più giù c’è invece il noccioleto, dove l’ambiente è molto più fresco, quasi collinare se non montano , e la vegetazione di muschi e licheni, tutti insieme”.
Insomma abbiamo nel raggio di pochi metri: macchia mediterranea, al sole, sughero nella parte intermedia, in basso, al fresco ci sono noccioleto e felci, infine pioppi e faggi.
La vera chicca del percorso è tuttavia quella finale. Ci dirigiamo infatti in una zona pianeggiante, dove si innalzava il Palazzo Sacchetti. Tra pendii scoscesi e macchia fitta ci troviamo davanti uno spettacolo sorprendente.
Qui troviamo pezzi di travertino nei ninfei per ricordare le rocce marine, secondo la moda francese. Questo lavoro di mattoni ci fa capire l’arte muraria del 600″.
“Questo è uno dei piani, sotto si trova un altro piano e davanti c’è una scalea grandissima. In fondo sulla pianura c’era un giardino e poi una grande pigna, un vaso di epoca romana con le ceneri dell’asino Grillo. Il fattore dei Sacchetti aveva un asino di straordinaria intelligenza che riusciva ad andare a piedi dalla villa fino al Vaticano per entrare a Porta Angelica. Essi erano talmente affezionati all’asino, che hanno cremato il corpo e messe le ceneri nella pigna decorativa di cui abbiamo disegni.
Nell’800 iniziarono gli studi e lavori del secondo cimitero di Roma. Così, mentre i francesi costruirono S. Lorenzo perché era passato l’editto di Saint Cloud che proibiva di mettere morti nelle chiese e all’interno della città, i romani
costruirono quest’altro.C’erano dunque due cimiteri: uno lì e uno a Pineta Sacchetti. Se vediamo le carte dell’8’00 si trova la scritta francese Cimetière, ma con la restaurazione e con il pontificato di Gregorio XVI il progetto fu abbandonato. Qui c’era la vista fino a S.Pietro e la strada era contornata da alberi.
Attualmente dunque, a due passi dal cuore di Roma, abbiamo uno dei patrimoni archeologici,botanici, faunistici più ricchi della capitale. Peccato solo che in pochi conoscano dettagliatamente le ricchezze del luogo e che oggi le casse dell’Urbe siano pressoché vuote per tutelare e valorizzare tale tesoro. Si può solo sperare che la divulgazione e la conoscenza, possano sensibilizzare i cittadini, sperando magari che un gruppo di volontari possa realizzare il tanto atteso miracolo.
di Simona Mazza
foto: sovraintendenzaroma.it
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