Intervista a Pasquale Colella “Capo scorta” della Squadra Mobile di Palermo negli anni 80

8556-300x213Intervistiamo oggi uno dei tanti “eroi” del quotidiano, che ovviamente non ama definirsi tale, ovvero Pasquale Colella (classe ’62) caposcorta della Squadra mobile di Palermo, a partire dal 1982, negli anni delle stragi di mafia. Pasquale ha lavorato gomito a gomito con i principali “attori” della lotta alla Mafia, molti dei quali sono morti per mano di Cosa Nostra.

Dopo le stragi del ’92, il tema della lotta alla Mafia sembra essere passato in secondo piano, ma in realtà si continua a scavare nel mondo sommerso alla ricerca della Verità e delle strane collusioni fra la Mafia e lo Stato.

Per questo ritengo opportuno non abbassare mai la guardia e soprattutto “Non Dimenticare”!.

Simona Mazza: Pasquale, avrai senz’altro tante cose da raccontarci. Innanzitutto, cosa significa, in termini di sacrificio umano e professionale, essere un “caposcorta” di personaggi di caratura internazionale quali ad esempio il Generale Dalla Chiesa o Giovanni Falcone e come viene addestrata una “scorta”.

Pasquale Colella: Premetto che mi sono sempre rifiutato di proteggere uomini politici, salvo in quelle occasioni in cui non potevo esimermi per compiti istituzionali. Per quanto riguarda l’addestramento, i servizi di protezione sono attività che richiedono l’applicazione di specifiche tecniche e peculiari procedimenti. Vengono svolte da personale che superato un corso di addestramento, in cui si prefigurano scenari operativi capaci di comprendere tutte le possibili situazioni reali di attacco, messe in atto da criminali che si avvalgono: l’obbiettivo quotidiano è l’impedimento dell’evento tragico.

S.M.: Come e chi coordina questo processo di messa in sicurezza?

P.C.: Nel processo intervengono l’Intelligence, il servizio di coordinamento e gli operatori di scorta. I primi acquisiscono tutte le informazioni necessarie sulle personalità da proteggere per poi delineare degli “itinerari” e tutte le modalità di intervento in caso di attentato. I secondi  di fatto pianificano e predispone il servizio si scorta, fungendo da filtro, tra l’Ufficio di Intelligence e gli operatori di scorta. I terzi sono di fatto gli esecutori del lavoro svolto dall’Intelligence e dall’Unita coordinatrice. All’interno della squadra, le decisioni finali spettano solamente al capo scorta. Proprio per tale motivo, viene scelta tra le più qualificate e professionalmente preparate.

S.M.:  Che ricordi hai della tua esperienza in Sicilia?

P.C.: L’ esperienza in Sicilia, mi ha lasciato un indelebile e profondo ricordo, fatto di momenti particolarmente belli, ma nello stesso tempo tanto tristi, e questo che vorrei ricordare è uno di quelli.

S.M.: E noi siamo pronti ad ascoltare

P.C.: Sono stato catapultato in Sicilia nel 1982, dove fui assegnato alla Squadra Mobil” in prima linea”, un mese dopo l’insediamento del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa alla Prefettura di Palermo. Qui fui assegnato alla squadra che operava alle sue dirette dipendenze Ricordo che il Generale Dalla Chiesa insisteva per ottenere più poteri, sempre e solo rinvii e silenzi. Probabilmente iniziava a capire, e iniziavamo a capire anche noi.

Allora decidemmo di proporre al Generale una nostra scorta. Si avvicinò a me, sicuramente perché ero il più vicino a lui, e mi colpì dolcemente sulla guancia, come se volesse rimproverarmi, non dimenticherò mai il suo sguardo, solo successivamente capì che quel dolce gesto voleva essere una protezione. Ci stava salutando e ringraziando per quello che avevamo fatto per lui. Non dimenticherò mai le sue parole di amore e piene di sentimento paterno verso quei bambini diventati uomini: “Siete giovani, voi siete come dei figli per me, e come padre non posso permettere che vi accada nulla, sappiate che sono consapevole che dovrò morire, preferirei che piangesse una madre sola e non tante madri”.

Questo era il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, un grande Uomo, un vero servitore dello Stato, abbandonato e tradito prima e assassinato poi da quello stesso Stato che ha difeso e amato fino al 3 settembre 1982. 

S.M.: Cosa ci dici del tuo rapporto con Giovanni Falcone?

P.C.: Avevo poco più di 22 anni quando ebbi il privilegio di conoscere il Dott. Falcone. Era un Uomo caparbio e deciso. Cercavo di studiare i suoi pregi e capire i difetti, perchè solo conoscendoli avrei potuto limitare la sua vulnerabilità. Ma in realtà non ne aveva! .Mi parlava spesso”dell’onore” come un valore che si stava perdendo per dare spazio alla vigliaccheria, alle scorrettezze e i tradimenti perchè l’onore rappresentava l’integrità. Spesso si lamentava, perché credeva nell’amicizia, che probabilmente non era corrisposta per ovvie ragioni e che non capirò mai o forse non voglio capire. Sosteneva inoltre che l’amicizia era una colonna indispensabile nella vita. Ma era anche consapevole che poteva causare dispiaceri, ma lui era coraggioso è ha voluto  giocare fine alla fine.: alle 17.58 di quel maledetto 23 maggio 1992 .

S.M.: E di Beppe Montana, ucciso il 28 luglio 1985 per mano della mafia, cosa puoi dirci

P.C Lo ricordo come un grande Uomo, un grande servitore dello Stato. Ricordo ancora il suo arrivo a Palermo, fine estate 1982, dopo l’omicidio del Generale/Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, era al suo primo incarico, ma la sua dedizione al dovere, la dignità e l’umiltà non si fece attendere. E’ stato, insieme ad altri uno degli artefici della mia crescita professionale. Per me e per coloro che lo hanno conosciuto condividendo la quotidianità della vita, il suo ricordo resterà indelebile nella nostra memoria e nei nostri cuori.

S.M.: Hai conosciuto tra l’altro Roberto Antiochia, la scorta del poliziotto Cassarà , trucidati entrambi il 6 agosto del 1985. Che ricordi hai di lui?

P.C.: Roberto Antiochia era uno dei tanti “piccoli Uomini”, era nato, proprio come me, il 7 giugno 1962. In una calda serata palermitana, in compagnia di altri giovani colleghi, avevamo condiviso e festeggiato i nostri 22 anni. Doveva essere un giorno tranquillo e sereno e invece si finì per parlare di lavoro.

Dopo l’omicidio del Dott. Montana, incontrai Roberto sotto la Squadra Mobile. Era giunto volontariamente a Palermo.Ero rimasto meravigliato nel rivederlo. Abbracciandomi e con le lacrime agli occhi mi sussurrò: “Devo stare accanto a Cassarà, ora come non mai. È rimasto solo e ha bisogno di me, lo devo a lui e lo devo a Montana”. Purtroppo, questa sua voglia di giustizia e questa sua esuberanza lo portarono inconsapevolmente verso un punto di non ritorno.

S.M.: Cosa è cambiato oggi rispetto a quegli anni?

P.C.: Ai miei tempi seguivo i processi, osservavo i volti dei mafiosi, dei gregari e dei loro familiari, cercavo nei loro sguardi un qualcosa che potesse essermi utile, anche attraverso un piccolo gesto delle mani o degli occhi, osservavo quasi tutto di loro, cercavo di afferrare un qualcosa che li potesse rendere vulnerabili, scrutavo anche nella loro più profonda intimità familiare tentando di non trascurare nulla. Qualcuno mi disse: “per combattere la mafia devi pensare come lei”, e così ho fatto. In questo ultimo trentennio, nulla è cambiato. È impensabile sostenere che il lavoro di un solo magistrato o più magistrati possa raggiungere la verità e ottenere giustizia senza il nostro sostegno, ovvero il sostegno della società civile.

S.M.: Disponevi di informazioni riservate?

P.C.:  Non sempre spesso gli Uffici non interagivano con il personale preposto alla scorta…

S.M.: gli uomini che proteggevi ti hanno mai confidato i loro timori e se sì come li aiutavi?

P.C.:  A volte direttamente a altre indirettamente. Era una questione caratteriale. Molti preferivano parlare direttamente con la scorta mentre altri preferivano far giungere le loro paure o preoccupazioni mediante qualche familiare o amico della famiglia

S.M.: che tipo di legame si crea tra la scorta e uomini da proteggere

P.C.: Un legame particolare, a volte non idilliaco: non per volontà delle parti ma a causa di fenomeni esterni che in qualche modo facevano saltare certi equilibri di natura professionale e personale. Solo con il tempo si riusciva a instaurare un rapporto di fiducia, di complicità, ma in questi casi lo si poteva ottenere esclusivamente con determinate persone.. che per ovvie ragioni non indico.

S.M.: Hai mai avuto paura per la tua vita o quella dei tuoi uomini?

P.C.: Si, sempre, la paura è stata la mia compagna di viaggio, mi ha aiutato ad essere razionale, mi ha sempre consigliato, mi ha fatto ragionare-

S.M.:  quando hai appreso della morte dei tuoi “uomini” cosa hai provato? Hai pensato che qualcosa nell’ingranaggio fosse andato storto, hai pensato di essere fortunato per non essere con loro in quel momento, avresti agito in maniera diversa, magari avresti potuto prevedere e prevenire, hai provato rabbia, frustrazione, impotenza, o cosa altro?

P.C.: Ho provato tanta rabbia. Non ho pensato a nulla, ho solo pregato. Dinanzi ad una forza criminale di quella caratura è impossibile prevedere qualsiasi altro scenario se non quello di morte e distruzione. Si, l’ho pensato tante volte e lo ripeto tuttora, mi definisco un fortunato. Ripeto, di fronte ad un’azione devastante di quel calibro non esistono tecniche che possano consentire di limitare i danni Ho sempre sostenuto sin dagli anni 1983/85, periodo in cui ero addetto alla protezione del Dott. Falcone che l’unico punto vulnerabile fosse proprio l’autostrada, anzi, per l’esattezza pensavo che ci avrebbero colpito utilizzando una delle due gallerie che si trovano in quel tratto autostradale In quel periodo il dispositivo di protezione del Dott. Falcone era integrato anche da un appoggio aereo. Ogni qualvolta ci spostavamo avevamo un elicottero che ci sorvegliava dall’alto indicandoci passo per passo eventuali interruzioni o intoppo nel tragitto ma con il tempo, qualcuno ha pensato bene di eliminare questa sorta di appoggio, così come  anche altri accorgimenti. In sostanza già da allora si iniziava a percepire l’isolamento

Cose che sto rivivendo in questo periodo , tra lettere anonime, minacce di attentati, depistaggi. Siamo tornati indietro di 30 anni.

di Simona Mazza 

foto: vivimazara.com

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