Sono 8,2 milioni, gli Israeliani di religione araba che hanno protestato contro la decisione del premier Netanyahu di presentare in Parlamento una legge per proclamare in via definitiva, “Israele, lo Stato del popolo ebraico”.
Contrarietà è stata altresì, espressa dai Palestinesi che si trovano nei territori occupati, convinti che il leader voglia ostacolare il ritorno in patria ai 5 milioni di profughi e ai loro discendenti, che dal 1948 non hanno una loro terra, almeno riconosciuta tale a tutti gli effetti.
Precisiamo che la risoluzione 194 delle Nazioni Unite, approvata l’11 dicembre 1948 verso la fine della guerra arabo-israeliana, aveva stabilito e definito il ruolo di una Commissione di Conciliazione delle Nazioni Unite, che si occupasse di facilitare la pace nella regione, ma ad oggi di pace non se ne vede tanta.
Ma a quando risale il progetto di creazione di uno Stato d’Israele?
Ebbene, esso fu partorito alla fine dell’800 da una fetta (assai potente a livello mondiale), di Ebrei. Parliamo della comunità sionista, movimento fondato da Theodor Hertzl, che basandosi su un’ideologia estremista, dunque non ortodossa dell’ebraismo, affermava il diritto del popolo ebraico, a tornare alle terre assegnate loro da Dio 2000 anni fa. I Sionisti giunti in Palestina agli inizi del ‘900, a differenza degli ebrei nativi di Palestina, si distinsero subito per la loro aggressività. Grazie ai loro potenti capitali, iniziarono ad appropriarsi delle terre e proseguirono con una serie di attentati che causarono centinaia di vittime. Come non bastasse, l’Organizzazione sionista era a favore delle leggi razziali tedesche degli anni ’30, in quanto esse creavano un sostanzioso bacino di immigranti da condurre in Palestina, che avrebbe alterato la demografia della regione a favore degli Ebrei, etnia indesiderata. In tal modo, gli Ebrei che ritornarono in patria furono percepiti dai Palestinesi come una civiltà a loro estranea e le tensioni aumentarono progressivamente, tanto che nel biennio compreso tra la risoluzione Onu del ’47 e la guerra del ’48, le milizie israeliane sterminarono i palestinesi, distrussero i loro villaggi ed espulsero migliaia di residenti per occupare indebitamente le loro terre, in barba appunto alla risoluzione Onu n. 194 del 1948 (favorevole al ritorno in patria).
Detto ciò, appare chiaro che la nascita di Israele non solo non fu affatto pacifica, ma fu un duro colpo anche per gli Ebrei. Essi infatti non avevano mai predicato il ritorno in patria in maniera violenta, come i Sionisti, ma storicamente vennero spesso confusi con i loro “fratelli” armati. Oggi Netanyahu sostiene “Occorre fornire un’ancora costituzionale allo Stato ebraico in risposta a chi vuole minare la giustificazione storica, morale e legale dell’esistenza di Israele come stato nazionale del nostro popolo”.
Egli ha inoltre precisato che lo Stato di Israele “preserverà la piena eguaglianza, dei diritti individuali e civili, per tutti i suoi cittadini, ebrei e non ebrei, in un Paese ebraico e democratico”.
I Palestinesi israeliani tuttavia non credono al premier e continuano a denunciare le discriminazioni messe in atto contro di loro. Uno di essi, l’attore Mohammed Bakri ha gridato “Israele deve appartenere a tutti i suoi cittadini, questa decisione razzista non deve essere accettata”. Al coro si sono aggiunti anche diversi esponenti politici arabi e israeliani ebrei, tra cui la ministra Tzipi Livni, che non intende sostenere “l’approvazione di una legge che pone problemi all’uguaglianza in Israele e ostacola la strada a un accordo con il presidente palestinese Abu Mazen e che ha più volte escluso un suo riconoscimento di Israele come Stato del popolo ebraico”.
di Simona Mazza
foto: haaretz.com
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