La cucina come arte: Henri de Toulouse-Lautrec

Nell’immaginario collettivo Henri de Toulouse-Lautrec, pittore, illustratore ed autore dei primi manifesti pubblicitari d’autore, scomparso a soli trentasei anni, è indissolubilmente legato alla Belle Époque parigina, al quartiere di Montmartre in cui, pur essendo di nobili origini, si stabilì, agli spettacoli del Moulin Rouge che grazie a lui sono entrati nel mito.

Meno conosciuta, ma non meno significativa, è la produzione culinaria di Toulouse-Lautrec, sopravvissutagli grazie a Maurice Joyant, l’amico di una vita ed il suo più affettuoso sostenitore che ne ha raccolto le ricette.

La Belle Époque parigina di Henri de Toulouse-Lautrec

Anche se la sua vita si è letteralmente bruciata tra il 24 novembre 1864, in cui nacque nel piccolo comune occitano di Albi, ed il 9 settembre 1901 in cui, devastato dalla malattia si spense, trentaseienne, tra le braccia di sua madre, Henri-Marie-Raymond de Toulouse-Lautrec-Montfa, questo era il suo nome completo, non può certo definirsi un artista maledetto o dissoluto.

Ultimo erede di una delle famiglie più facoltose e di più antica nobiltà di Francia Henri fu piuttoso un amante vorace della vita in tutte le sue espressioni e se ne cibò fino ad esserne letteralmente consumato.

Pur non essendo più basso di molti altri suoi contemporanei, era alto 1 metro e 52, il suo corpo adulto era sorretto, a causa di una menomazione ereditaria frutto probabilmente dell’eccessiva tendenza alla consanguineità della sua stirpe e di una serie di gravi incidenti avuti in gioventù, da gambe infantili e deformi che lo rendevano sproporzionato.

Una menomazione che, peraltro, non gl’impedì di avere un’intensa vita amorosa perché, malgrado il suo aspetto, fu indubbiamente, secondo quanto riferiscono coloro che lo conobbero, una persona affascinante e generosa.

Nato e cresciuto in un ambiente agiato e sereno, fu educato alla buona tavola ed ai piaceri della vita al punto che i suoi, che non avevano preoccupazioni di tipo materiale, non solo avevano fatto del pranzo, il principale pasto quotidiano che preparavano personalmente, un rito in cui si gustava ogni prelibatezza, ma lo incoraggiarono alla vita all’aria aperta con uno stile educativo, paragonato al lignaggio della sua famiglia, decisamente laico ed aperto.

Anche la scelta d’intraprendere la carriera artistica non fu certo osteggiata dalla sua famiglia, la quale, invece, si preoccupò del luogo in cui aveva deciso di prendere dimora: Montmartre, tra tutti i quartieri di Parigi, non era certo considerato tra i più prestigiosi.

Henri, tuttavia, non poteva che essere irrimediabilmente attratto da Parigi, che all’epoca era davvero il centro del Mondo, e da quel quartiere così denso di vita, soprattutto notturna, che assecondava la sua indole.

Giunse a Parigi la prima volta come riluttante alunno del Lycée Fontanes (poi Condorcet) e qui conobbe Maurice Joyant, la cui amicizia lo accompagnò e lo sostenne per tutta la vita, ma fu presto costretto, nel tentativo di curare la sua menomazione che invece, a causa di una serie di cadute e di fratture peggiorò, a ritornare nella natia Albi, salvo poi ristabilirsi a Parigi per intraprendere quella carriera artistica che egli vedeva come il suo destino.

A Parigi s’inserì perfettamente grazie alle lezioni prese da pittori amici di famiglia ed ai buoni uffici di due mercanti d’arte: l’amico di gioventù Maurice Joyant e Theodorus «Teo» van Gogh, fratello di Vincent.

In soli dieci anni, prima di cadere nuovamente preda dei suoi malanni, conquistò la fama grazie alla spregiudicatezza nella descrizione della vita notturna dei locali di Montmartre e, soprattutto, ai manifesti, antesignani della comunicazione pubblicitaria d’autore contemporanea, degli spettacoli del Moulin Rouge e di altri locali alla moda.

Lui e Maurice Joyant, come raccontano Madeleine Grillaert Dortu e Philippe Huisman nella postfazione al libro di ricette di Henri, praticavano un «epicureismo non egoista» in cui musica, arte, letteratura, balli, piaceri femminili e ovviamente cucina e buon bere erano uno stile di vita da perseguire ad ogni prezzo, erano semplicemente «vita».

La cucina come arte

«La cucina come arte» è un’espressione attribuita a Henri de Toulouse-Lautrec dal suo amico Maurice Joyant e l’approccio artistico di Toulouse-Lautrec fu ciò che lo distinse dai cuochi e gastronomi suoi contemporanei in un periodo storico che si può definire l’età aurea della cucina francese.

Da un lato vi erano i grandi Chef che sul solco di François Pierre de La Varenne e di Marie-Antoine Carême stavano creando quell’alta cucina francese che pochissimi anni dopo la scomparsa di Toulouse-Lautrec troverà la sua consacrazione nell’opera di Georges Auguste Escoffier.

Dall’altro i letterati-gastronomi che contendevano agli Chef professionisti il ruolo di maestri del gusto: Anthelme Brillant-Savarin, Honoré de Balzac, Alexandre Dumas, Charles Baudelaire e Barthélemy Andre Cameram.

Tutti protagonisti di una cucina opulenta, ricercata e raffinata e al cospetto dei quali, con tutto l’affetto, il nostro Pellegrino Artusi faceva la figura di un oste di provincia.

L’originalità di Toulouse-Lautrec si espresse proprio nel suo approccio: come un artista si dispone alla creazione di un’opera procurandosi l’occorrente e la giusta ambientazione e nel momento della creazione unisce esperienza, estro e precisione, così lui creò e realizzò un numero impressionante di ricette partendo da basi assolutamente comuni, i classici della cucina continentale e francese in particolare, dandogli un’impronta originale.

Se infatti taluni ingredienti della cucina francese, come il burro, il dragoncello, le salse, sono una costante, lui vi aggiunse una notevole quantità, inusuale per la cucina della sua epoca, di prodotti freschi (la sua base era composta di ben 28 tra erbe aromatiche ed ortaggi) e di condimenti altrettanto inusuali come la salsa di mango del Bengala, la salsa di soia (che lui chiamò «Chinese sauce»), la salsa Worcestershire e ben sei tipi di salsa di senape: francese naturale, francese di Digione al dragoncello, inglese Colman e inglese Savora.

A dispetto della sua vita vorticosa amava le lunghe e lunghissime cotture a bassa temperatura che controllava in modo maniacale convinto che, come l’arte, anche la cucina avesse necessità dei suoi tempi.

Non esitò, da cacciatore, a sperimentare la carne di animali del tutto inconsueti come la marmotta e lo scoiattolo e, da cacciatore, aveva un’idea del tutto sua sul modo d’intenerire la carne di pollame.

Si legge nel suo ricettario: «allo scopo di ottenere subito dei polli mangiabili, fateli uscire dal pollaio, inseguiteli in aperta campagna e, dopo averli fatti correre, abbatteteli a colpi di fucile caricato a pallini. La carne del pollo impaurito diventa tenera. Questo metodo sembra sia infallibile anche per le galline più vecchie e coriacee».

La sua esigenza di ben mangiare e ben bere non lo abbandonava mai: i suoi biografi raccontano che portava sempre con sé una piccola grattugia ed una noce moscata per correggere il Porto e che, imbarcatosi su di un piccolo mercantile da Le Havre a Bordeaux, fece fermare la nave per comprare in mare dei crostacei appena catturati dai pescatori bretoni e li preparò il sala macchine con del Porto e dei condimenti che per ogni evenienza si era portato da Parigi.

Pur essendo i suoi piatti indubbiamente elaborati, e basti pensare alla ricchezza del suo cavallo di battaglia, «i colombacci alle olive», che prevedono anche vari tipi di carne di vitello e maiale oltre alle fette di tartufo, privilegiò gli equilibri rispetto all’apparenza con un’attenzione originale alle provenienze dei diversi ingredienti frutto evidentemente delle sue origini familiari che lo avevano educato a ritenere ordinaria l’eccellenza gastronomica.

Il rito del pasto secondo Henri de Toulouse-Lautrec

La convivialità era parte integrante della cucina Henri de Toulouse-Lautrec ed ogni occasione, da un nuovo spettacolo ad una mostra d’arte, era buona per organizzare un simposio curato nei minimi dettagli, dalla scelta del menù ai convitati, ed era impreziosito da una sua opera: fosse un disegno a corredo degli inviti o lo stesso menù: cucina e pittura in quel momento si fondevano perfettamente.

Privilegiava il pranzo, in cui i sensi sono più attenti e meno affaticati, alla cena, sceglieva con cura i commensali, mai in numero superiore alla decina, avendo cura che le signore non vi partecipassero o comunque non avessero il sopravvento, per evitare che il pasto volgesse a schermaglia amorosa, e curava che i convitati non avessero tutti la stessa vocazione professionale in modo da non trasformare il pranzo in una riunione d’affari.

Non mancò, come s’è visto, di una certa dose di misoginia, tipica del suo ceto, e di una notevole dose d’esibizionismo.

Questo, oltre che manifestarsi nei disegni e nei dipinti che rendevano unico ogni simposio, si esprimeva nella spettacolarizzazione della sua arte culinaria: non disdegnava quello che oggi definiremmo «show cooking».

I suoi biografi narrano che, dovendo preparare per un suo amico un’aragosta all’americana, che andava tagliata ancora viva, disdegnò la cucina ed il tinello che gli erano stati messi a disposizione dal padrone di casa pretendendo di cucinarla direttamente in salotto, colmo di soprammobili ed oggetti d’arte, nel terrore dello stesso padrone di casa, ma giungendo alla fine della sua opera, condotta con grande precisione e maestria, senza aver macchiato neppure uno dei teli che, frettolosamente, il suo ospite aveva fatto mettere a copertura degli oggetti più preziosi.

Nella scelta dei convitati era estremamente selettivo ed esigente ed il suo massimo segno di disprezzo per taluno era fargli sapere che mai lo avrebbe invitato ad assaggiare una delle sue prelibatezze.

Come tutti i cuochi e le cuoche, e sotto questo aspetto nessuno può considerarsi immune, era dotato di una notevole considerazione di sé e della sua arte culinaria, ma questo aspetto del suo carattere, che si manifestò soprattutto nella precisione delle sue ricette, non lo indusse a diffondere o addirittura a pubblicare, come fecero e fanno tutt’ora i personaggi di successo che si mettono ai fornelli, le proprie creazioni.

Più che ritrosia, che non gli appartenne certamente, a spingerlo in questa direzione fu probabilmente il suo approccio alla vita che va vissuta in ogni aspetto, in ogni istante, divorata come una pietanza golosa e che, in quanto vita, soffio vitale, non può essere tramandata, ma solo vissuta per attimi.

Henri de Toulouse-Lautrec: la cucina e la vita come arte.

Foto di Simona Mazza

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