Gli intercalari: fantasiosi e coloriti, spesso tradiscono pensieri nascosti

intercalari

C’è gente, anche colta, che nel discorso usa ed abusa di intercalari.

Normalmente non ci si fa caso perché dal punto di vista semantico la comunicazione non ne soffre.
Per quanto colui che parla infiorisca il suo dire di “insomma”, ”cosa o coso”, “voglio dire“, “non è vero ?“, “va bene…“, “capisci”, l’argomento resta intellegibile .

Quel che colpisce è il fatto che il dicitore non può fare a meno di inserire quelle parole inutili.
Psicologi e linguisti affermano che si tratta di una pausa inconscia che serve a schiarirsi le idee, a trovare l’espressione più idonea.

Talora classificano l’intercalare come una forma di balbuzie o come tic espressivo.
Più semplicemente che ci caschiamo un po’ tutti, ora per la fretta, ora per pigrizia, spesso per ostentare modestia e familiarità.

Ma non è per fare un’analisi pseudo-colta d’una cattiva abitudine che ne parlo, ma perché certi intercalari sono articolati, fantasiosi, anomali, coloriti e spesso tradiscono pensieri nascosti o sotterranee avversioni, un po’ come certi lapsus freudiani.

Invero nell’intreccio occasionale degli eventi e nel profluvio disordinato delle parole perdiamo spesso il senso delle cose. Ma soprattutto, contro ogni intenzione di chi li formula, questi intercalari sortiscono effetti d’una comicità irresistibile, d’una esilarante bizzarria.

Ne parlo (ricorrendo al bagaglio delle esperienze personali) perché il tema è divertente e la relativa nota di costume si presta a riflessione.

Il professionista

Il primo personaggio della mia casistica è l’ing. Papavero (nome di fantasia come tutti quelli che seguiranno) che sia nel discorso abituale sia in quello professionale, quando intendeva riferirsi a situazioni o eventi già noti all’ascoltatore diceva: “na cosa na storia e compagnia bella” oppure “ parapà e parapa’”.

Una volta riuscì a cumulare i due intercalari al termine di quella che doveva essere una dettagliata istruzione.

Rimproverava suo figlio d’aver inviato una lettera di sollecito ad un cliente secondo lui troppo generica e cautelosa: “eh no figlio mio, quando si bussa a quattrini bisogna essere chiari, precisi, addirittura matematici; tu gli dovevi di’ “parapa’ parapa’, na cosa na storia e compagnia bella!”.

Il fornitore del clero

Il secondo personaggio è comm. Tresoldi, produttore di materiale di culto e fornitore diretto del Vaticano, anch’egli alle prese con inosservanza dei termini di pagamento della merce tempestivamente consegnata.

Il nostro aveva come intercalare sostitutivo il ben noto termine osceno.

In questo si allineava alla moltitudine di coloro che usano la denominazione triviale dell’organo maschile come una variante abituale del lessico comune, ora con valore sostitutivo ora con valore aggettivale, sempre e comunque con una valenza dispregiativa (un bell’autogol per i maschilisti).

Nella corrispondenza con gli alti prelati aveva cura di chiudere con la formula “prostrati al bacio della sacra porpora” qualunque fosse la natura della richiesta: sollecito , diffida , minaccia di adire le vie legali.
Nel correggere una lettera di tal genere rimproverò la segretaria d’essersi dimenticata della regola e d’aver chiuso la missiva con lo sbiadito congedo “con osservanza”.

Andò su tutte le furie perchè il destinatario era addirittura un cardinale e disse: “ma non se la ricorda la formula? prostrati al bacio del c….. “.

Il presidente

Il terzo personaggio è un presidente di Tribunale (che ricordo come persona degna d’ogni rispetto) che aveva come intercalare “insomma lì!”.

Negli ambienti forensi era chiamato il presidente insomma lì.

La frase gli sfuggiva talora nel dettare i verbali d’udienza (era in vigore il vecchio codice di procedura penale per cui imputati e testi riferivano con parole loro e il Presidente riassumeva dettando al cancelliere). In un processo per atti di libidine violenti (una fattispecie meno grave della violenza carnale) interrogava la vittima con tatto e cautela per rispettarne la dignità e il pudore.

(“O gran bontà dei cavalieri antiqui…” diceva Ariosto)

Registro l’evento:
Domanda – Ti ha toccato sopra il vestito o peggio? –
Risposta – Mi ha sollevato la gonna e mi ha frugato…-
Pausa d’imbarazzo.
Presidente: -va bene, ho capito, tranquilla. Cancelliere metta a verbale. –
Cancelliere: -come debbo scrivere, mi ha toccata e poi?-
Presidente: -mi ha toccata insomma lì –

Lo zio “dicoso”

Con il quarto personaggio esco dal Boccaccesco ed entro in un terreno asettico ricordando gli intercalari di un mio zio che per l‘uso del termine (un fonema in realtà ) “di coso” cui poi si aggiungevano “nevvero e coso“, “eccetera e coso“ in famiglia era lo zio “dicoso” e il suo modo di dire ci sembrava normale.
“la pasta era scondita, ci mancava tutto il dicoso“

Oppure: ”E’ tutto falso, nevvero e coso”
Oppure “passami l’accendicoso“

Ma un giorno, in un vero stato di grazia, abbandonando le ovvietà dell’intercalare, si imbarcò in una descrizione ricca e articolata della differenza fra il canto del fringuello e quello dell’usignolo.
E disse testualmente: “mentre il fringuello si limita ad un semplice cip cip dicoso, l’usignolo effonde nell’aria il suo nevveroecceteraecoso”.

Putroppo del singolare gorgheggio dell’usignolo dello zio dicoso non abbiamo una registrazione che sarebbe stata un prezioso documento per gli ornitologi…

Foto di Vinzent Weinbeer da Pixabay

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