Il giovane Boccaccio tra pratica mercantile e vocazione poetica

Il giovane

Oggi si parla molto di come aiutare i bambini e i ragazzi a riconoscere e coltivare i propri talenti. Assecondare le inclinazioni naturali per permettere ai giovani di costruire se stessi è diventato un vero e proprio imperativo sia per la famiglia che per la scuola. Ma se la pedagogia dei talenti è relativamente nuova, la consapevolezza di avere un’inclinazione naturale e la necessità di trasformarla in un progetto di vita non ha tempo. Lo sapeva già Giovanni Boccaccio nel XIV secolo. Nel trattato Genealogia deorum gentilium (1350-1370) il letterato afferma di aver avvertito già in tenera età un singolare «affetto che lo spingeva alla poesia». Parla di una vera e propria inclinazione dello spirito, che lo fa tendere con tutte le forze all’arte poetica.

Boccaccio scrive: «Mi ricordo: non avevo ancora compiuto i sette anni, ed ecco che, per l’impulso stesso della mia natura, nacque in me il desiderio di comporre e scrissi alcune poesie, sia pur prive di ogni valore […]. Sono sicuro che se mio padre avesse accettato la mia inclinazione alla poesia, quando la mia età era più adatta, avrei potuto trovare posto tra i poeti famosi». Non usa mezzi termini: il padre non ha assecondato il suo talento e questo gli ha impedito di diventare il grande poeta che avrebbe potuto essere. 

La volontà del padre e gli studi mercantili

Se leggiamo la biografia di Boccaccio apprendiamo che suo padre, Boccaccino di Chellino, è un mercante socio dell’importantissima Compagnia fiorentina dei Bardi. Egli indirizza fin da subito il figlio agli studi mercantili e nel 1327 lo porta con sé a Napoli per fargli fare pratica mercantile presso la filiale napoletana della Compagnia. Sempre nella Genealogia Boccaccio racconta: «mio padre, fin dall’infanzia, indirizzò tutti i suoi sforzi per fare di me un commerciante; e dopo avermi fatto imparare l’aritmetica, mi affidò, non ancora adolescente, in qualità di apprendista, ad un grande commerciante, presso il quale per sei  anni non feci altro che sprecare inutilmente un tempo non più recuperabile».

Il destino dell’autore sembra già segnato dalla ferma volontà del padre di fare di lui un mercante. Ma le inclinazioni naturali contano, e nemmeno anni di studi possono trasformare un letterato nato in un buon venditore. Boccaccio si dimostra inadatto alla pratica mercantile, così Boccaccino di Chellino — spinto sempre dalla logica del guadagno e del successo — lo manda a studiare diritto canonico presso un maestro d’eccezione. Si tratta dello stilnovista Cino da Pistoia, che insegna Diritto civile all’Università di Napoli proprio nel periodo in cui Boccaccio si trova in città. 

La corte intellettuale e la vittoria della vocazione poetica

Tuttavia, nemmeno gli insegnamenti del miglior maestro riescono a vincere la fascinazione del fermento intellettuale che caratterizza la corte napoletana di Roberto d’Angiò. È proprio la posizione del padre a permettere a Boccaccio di frequentare questo ambiente. Qui viene a contatto con molti intellettuali. Grazie alla ricca biblioteca reale ha modo di leggere vari manoscritti e di respirare culture e tradizioni diverse (francese, araba, orientale…) che gli forniranno la molteplicità di fonti a partire dalle quali egli costruirà il suo monumento letterario: il Decameron.

Ma soprattutto negli anni napoletani Boccaccio scrive opere in versi. Si pensi al poemetto mitologico La caccia di Diana, al poema narrativo Filostrato e al poema in ottave Teseida. Questi, se anche non avranno la portata innovativa del Decameron, resteranno splendidi esempi di un talento inarrestabile che ha tenacemente trovato la strada per l’ affermazione.  

Foto di Gordon Johnson da Pixabay

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