A caccia del killer degli stambecchi

 

Nel Parco nazionale del Gran Paradiso il 75% dei cuccioli di stambecco muore nel primo anno di vita. Una strage che gli esperti cercano da anni di fermare. Ma i tagli ai finanziamenti dei parchi nazionali rischiano adesso di mettere fine alla ricerca. E con essa anche alle attività economiche grazie alle quali vivono 13 comuni sui versanti piemontese e valdostano dell’area. È una guerra che si combatte ad alta quota, silenziosa e sconosciuta come a volte capita a certe guerre. La trincea è a 2.289 metri di altezza, nel Vallone di Leviona, ai piedi della Grivola e si raggiunge partendo da Eau Rousse, in Valsavarenche a 1.666 metri. Abituati come sono a salire e scendere dalla montagna tutti i giorni, i guardaparco coprono la distanza in una quarantina di minuti, arrivando a volte a sfidarsi tra di loro a chi ci mette meno tempo. Tutti gli altri ce la possono fare con un paio d’ore di cammino, a patto di avere un buon passo e di aver conservato un po’ di fiato. La fatica però è ben ricompensata e non solo dal paesaggio. E’ nel vallone infatti che si dà battaglia cercando di capire cosa e perché da dieci anni uccide i giovani stambecchi – che qui vengono chiamati capretti – nel loro primo anno di vita. Il tasso di mortalità provocato dal misterioso killer ormai è così alto che per ogni 100 capretti nati a giugno inoltrato, solo 20-25 sono ancora vivi dodici mesi dopo. Una strage che anche se non rischia di far estinguere la specie, riesce comunque a metterla in serio pericolo. E fa dannare gli esperti che ne cercano le cause. Dieci anni fa, 5000 esemplari Qui a quota 2.289 – con sullo sfondo lo scenario incredibile dei ghiacciai – il Parco nazionale del Gran Paradiso ha da anni istituito un laboratorio di ricerca che tra le altre attività si occupa anche di studiare le cause della morte dei capretti. Un progetto che coinvolge direttamente tre università, quelle di Pavia e Sassari e quella canadese di Sherbrooke, e che ogni anno porta circa 70 studenti a trascorrere lunghi periodi di studio su queste montagne. «Abbiamo iniziato nel 1991, quando i capretti hanno cominciato a morire. All’epoca gli esemplari presenti nel parco erano circa 5.000 contro i 2300 di oggi», racconta Bruno Bassano, da più di vent’anni veterinario del parco. Quando è arrivò qui nel 1985, Bassano era un giovane laureato appassionato di animali e di montagna. Un amore per questi luoghi che traspare evidente ancora oggi che a 52 anni è il responsabile del servizio sanitario e ricerca scientifica del parco. E’ lui a coordinare le equipe di studiosi che salgono sulla Grivola per dare la caccia al killer. E gli studi condotti fino a oggi hanno permesso di fare importanti passi in avanti. Ad esempio si è potuto escludere che a uccidere i capretti possano essere dei fattori patologici. «Tutte le malattie conosciute che possono provocare la morte dei cuccioli di stambecco colpirebbero anche i camosci, che invece continuano a riprodursi. C’è ancora un’ipotesi di parassitosi da indagare, ma sono abbastanza convinto che non sia il fattore scatenante», racconta il veterinario. Le ricerche hanno anche permesso di stabilire un collegamento tra le precipitazioni nevose e la mortalità dei giovani stambecchi. In situazioni normali, quando la neve è abbondante, gli esemplari più vecchi muoiono lasciando il posto a quelli più giovani e completando in questo modo un ciclo naturale. «Le cose non sono però andate più così da quando sono iniziati i mutamenti climatici», prosegue Bassano. «L’aumento delle temperature ha portato a un invecchiamento della popolazione di stambecchi: sia maschi che femmine vivono più a lungo e queste ultime proprio a causa della loro età partoriscono capretti più leggeri di peso e quindi più deboli». Per capire il cambiamento che c’è stato basti pensare che normalmente uno stambecco vive in media 12-13 anni, mentre di recente sono stati trovati esemplari anche di 21 anni. I fattori interni ai branchi sono però solo una delle ipotesi allo studio. Non è esclusa infatti anche un’altra possibilità, legata questa volta all’alimentazione dei capretti. «Le temperature più alte fanno maturare l’erba più velocemente, a maggio invece che a giugno. Questo vuol dire che quando i cuccioli di stambecco sono fuori e, finito l’allattamento cominciano a mangiare da soli, si trovano un’erba che è ormai praticamente tutta fibra, troppo dura per loro e con poche proteine, come invece avrebbero bisogno». Ad avvalorare ulteriormente questa tesi ci sarebbe anche il fatto che casi analoghi di mortalità tra capretti si sono avuti anche in nord America e Canada, entrambi Paesi in cui si sono registrati analoghi cambiamenti climatici. La caccia al killer dei capretti rischia però di interrompersi per mancanza di finanziamenti. Non servirebbero neanche molti soldi. Per far sì che il progetto della durata di tre anni proceda bastano infatti 53 mila euro, necessari per pagare un paio di borse di studio, per fare le analisi genetiche degli animali e per acquistare le attrezzature necessarie a marchiare gli animali. Una parte fondamentale del lavoro di ricerca consiste nel censire gli stambecchi, ognuno dei quali viene anestetizzato a distanza, gli vengono eseguiti dei prelievi di sangue e infine pesato prima di essere marchiato e di nuovo liberato. Un lavoro esteso a tutte le specie presenti nel parco, dai camosci (ce ne sono undicimila) alle marmotte, dall’aquila reale all’avvoltoio degli agnelli, riapparso da poco tempo. Ai lupi, che anche loro da qualche anno sono tornati a vivere tra le valli alpine. «Il futuro? Per i parchi è nero». Il taglio dei fondi per il progetto stambecchi è solo una parte di quello più drastico previsto dalla manovra economica per il parchi nazionali. Nel 2009 il finanziamento statale per il il Parco del Gran Paradiso è stato di 4.593.011,94 euro destinati a diventare in futuro 2.296.505.97. Solo per pagare gli stipendi degli 81 dipendenti, 57 dei quali sono guardaparco (il Gran Paradiso è l’unico parco nazionale a non usufruire delle guardie forestali), se ne vanno quasi 4 milioni di euro, per la precisione 3.926.437 euro . Si fa presto a immaginare cosa accadrà. «Con cifre simili siamo già in deficit di 1.629.931 euro, quindi non siamo neanche in grado di pagare gli stipendi», si dispera il direttore del parco, Michele Ottino. «Il futuro per noi è nero. Basta pensare ad esempio agli uffici: noi siamo in affitto, se non possiamo più pagare che facciamo? Avevano anche pensato di lavorare per strada in segno di protesta e non è detto che non lo faremo». Senza soldi a saltare non si potrà più neanche studiare l’arretramento dei ghiacciai provocato dalle alte temperature, oppure tenere aperti i dieci centri visitatori che ogni anno accolgono e danno informazioni a 1,2 milioni di turisti. Con le conseguenze che finiranno inevitabilmente per ripercuotersi sui 13 comuni, 6 del Piemonte e 7 della Valle d’Aosta compresi nei quasi 71 mila ettari del parco, il più antico d’Italia. Realtà importanti sia dal punto di vista naturalistico che da quello economico rischiano di chiudere e, alcune, di non aprire addirittura i battenti. Come lo splendido giardino botanico alpino «Paradisia», a Cogne, o il centro per la conservazione dei corsi d’acqua in costruzione in Valsavarenche. Ma anche quello per la vendita di prodotti locali (tutti rigorosamente con il marchio di qualità del parco) in allestimento a Rhemes Saint Georges. Oppure il progetto di mobilità sostenibile «A piedi tra le nuvole» in corso tutti gli anni a Ceresole Reale, nel versante piemontese del parco. Dove si trova anche il centro visitatori sullo stambecco. Fatta eccezione per Cogne, che conta 1.500 residenti, gli altri sono tutti piccoli comuni con 200 abitanti, a volte anche meno, che già si fanno in quattro per tenere aperta la scuola elementare a dispetto del ministro Gelmini e che vedono un’eventuale crisi del parco come l’anticamera della propria. «La chiusura del parco – dicono all’unisono gli amministratori dei due versanti – vorrebbe dire spopolare i nostri paesi e di conseguenza la  montagna». Un’ipotesi alla quale il presidente della Valle d’Aosta Augusto Rollandin non vuole neanche pensare. E che rifiuta insieme all’altra possibilità che in questi giorni si sta facendo avanti: quella che il taglio dei finanziamenti nasconda in realtà l’intenzione di privatizzare i parchi nazionali, in tutti i sensi la cassaforte naturalistica del Paese. «Un’ipotesi che escludo proprio. L’organizzazione del Parco deve rimanere pubblica e di competenza delle due regioni direttamente interessate, Piemonte e Valle d’Aosta», rassicura Rollandin che nei giorni scorsi ha lanciato un grido d’allarme proprio sul taglio dei finanziamenti. «Senza soldi si rischia di tagliare il 58% dell’organico mettendo a rischio la tutela del parco stesso». L’ipotesi di un possibile arrivo dei privati inquieta anche Ottino. «La stragrande maggioranza dei parchi, anche nei paesi liberisti come gli Usa, vivono grazie ai finanziamenti statali», ricorda il direttore del parco. Che al limite sarebbe disposto a ragionare su un altro tipo di intervento privato. «Sarebbe diverso se pensassimo a delle fondazioni che affiancano il parco nella raccolta di finanziamenti. Come avviene nel parco nazionale di Yellowstone, dove una fondazione ha raccolto due milioni di dollari senza mettere bocca nella gestione dell’area. Oppure si occupa della vendita di gadget e, tolte le spese per il personale, dona il ricavato delle vendite al parco. Ma ci sono anche esempi di fondazioni che hanno fatto degli accordi con istituti di credito, grazie ai quali una percentuale delle spese fatte con la carta di credito finiscono col finanziare il parco. Sì – riconosce Ottino – questo sarebbe un futuro possibile se proprio lo Stato non vuole impegnarsi più in questa direzione. Non sarebbe auspicabile, ma sarebbe un’ipotesi interessante. Oppure ci dicessero chiaro e tondo che vogliono privatizzare e allora ci attrezziamo, ma questa è una cosa che si fa nel corso degli anni. Se invece si pretende di farlo dall’oggi al domani si rischia di ridurre i parchi alla canna del gas». Un futuro senza più soldi per continuare la ricerca è una prospettiva che preoccupa anche gli studiosi che lavorano in quota. «Qui si rischia di chiudere tutto», dice Bassano mentre le nuvole cominciano a coprire il cielo e il vento si fa più freddo. Un timore che però non smorza l’entusiasmo del veterinario e degli studenti che lo aiutano nella caccia al killer degli stambecchi, né quello delle guardieparco che conoscono la montagna come le loro tasche. Ma adesso non serve parlare. «E’ ora di tornare al lavoro», dice Bassano salutando. (2-continua) 2.300 STAMBECCHI sono presenti oggi nel Parco. Solo dieci anni fa erano circa 5.000. Una causa misteriosa uccide il 75% dei cuccioli entro il loro primo anno di vita.  

Carlo Lania  

Fonte: www.ilmanifesto.it

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