La storia del teatro ha origini antichissime (in Grecia nacque oltre 5000 anni fa). Emerso da miti, cerimonie e rituali che si svolgevano nella vita quotidiana, il teatro (che significa “un luogo per la visione”), è stato probabilmente il mezzo di narrazione più espressivo e si è adattato costantemente ai tempi mutevoli e alle peculiarità locali.
A Napoli ha trovato una delle sue massime espressioni a partire dal XIX secolo, con una delle maschere italiane più popolari di sempre: Pulcinella, evoluzione del Maccus, il mangione sciocco del genere atellano (IV secolo).
Bisognerà aspettare la fine dell’800 perché, in in una Napoli pervasa da una comicità sana e leggera, nasca il teatro dialettale moderno.
A crearlo fu Eduardo Scarpetta, che si specializzò nell’adattare in lingua napoletana moltissime pochade francesi.
Oggi parliamo di teatro con Maria Basile Scarpetta, vedova di Mario Scarpetta (nipote di Vincenzo Scarpetta, il figlio di Eduardo Scarpetta).
Oltre ad aver recitato nelle riduzioni di alcune commedie di Eduardo Scarpetta, Marisa Basile Scarpetta ha svolto anche un’intensa attività per il cinema e la televisione.
D. Eduardo De Filippo scrisse Filumena Marturano per sua sorella, Titina, la quale lo rimproverava di non aver mai assegnato nella sua drammaturgia, un ruolo da protagonista ad una donna. Cosa vuol dire essere attrice/donna in teatro? Perché la donna è quasi sempre la “spalla”, al massimo il “deus ex machina” e raramente la protagonista?
R. Effettivamente, i ruoli per un’attrice sono sempre piuttosto limitati. La nostra società è infatti impostata su un maschilismo ancora molto presente. Ultimamente la donna riesce a ritagliarsi degli spazi sempre più ampi, ma se penso al commento di Beatrice Venezi al Festival di San Remo (ndr), la quale ha sottolineato “Io sono direttore d’orchestra”, ritengo che ci sia ancora molto da fare per scardinare questi preconcetti. A dire il vero, secondo me la donna ha una marcia in più a tutti i livelli, forse è temuta proprio per questo, ma comunque sono fiduciosa. Prima o poi questa mentalità dovrà cambiare.
D. Il mistico indiano Tilopa diceva “La suprema condotta è assenza di sforzo”. In effetti, lei è stata impeccabile e magnifica in teatro, nelle commedie di Eduardo Scarpetta: “’O scarfalietto” , “Tre pecore viziose”, “‘O miedeco d’e pazze” e in “Viva gli sposi” di Mario Scarpetta, così come nel cinema ed in tv. Un misto di perseveranza, tecnica ed una naturalezza degna di un vero “cavallo di razza”. Attrice si nasce o si diventa?
R. Una bella domanda… Attore si nasce e si diventa. Molte cose le impari sul campo, ma sicuramente devi avere il “gene” dell’attore nel dna. Se, come me, sposi un mondo affascinante e complesso, come quello del teatro (che è il mestiere più bello del mondo), devi avere delle caratteristiche ben precise perché ti stia a pennello.
Prenda la mia storia: ho iniziato ad insegnare come supplente, poi a 25 anni mi sono resa conto che non era il mio mondo. Otto anni dopo decisi che il teatro era quello che dovevo fare, che mi piaceva fare, la mia missione.
Oltre a “nascere” attori, lo si diventa, ma non si finisce mai di imparare perché ogni esperienza è a se stante. Incontri nuovi amici, nuovi attori, registi che ti trasmettono e trasferiscono sempre delle cose uniche e nuove. Poi c’è l’adrenalina: una sensazione bellissima. Oggi per fare l’attore tocca resistere, anche economicamente. E’ un settore che, rispetto al passato, è inflazionato, ma se sei attore “dentro” sicuramente la passione ti conduce al traguardo.
D. Torniamo alla questione “essere donna”. Quali sacrifici deve affrontare una donna/attrice rispetto ad un uomo?
R. Ho cominciato a 17 anni a fare l’attrice, poi a 35 anni mi sono sposata con Mario Scarpetta. Come per altre professioni, è difficile conciliare il ruolo di attrice, moglie e mamma.
Personalmente, ho dovuto rinunciare a diverse scritture perché mio marito era in tournée ed io non ho mai voluto lasciare i miei figli, Eduardo e Carolina, ad un’estranea. Per me è stata tosta, però sento di aver fatto la cosa giusta, perché adesso ho due figli “sani”, meravigliosi e realizzati e la cosa mi rende felice.
Sono scelte…
Ricordo che durante la tournée della commedia “Le voci di dentro”, portai con me la piccola Carolina, poi mi resi conto che non era la scelta più indicata. Sia io sia mio marito eravamo della stessa idea su questo punto, per cui decidemmo di far combaciare la vita familiare e i nostri impegni lavorativi senza creare scompensi, tanto che quando Carolina iniziò a frequentare l’asilo, evitai di andare in tournée.
Per tornare alla domanda: è chiaro che la donna si sacrifica di più rispetto all’uomo.
Il legame viscerale che si crea tra mamma e figli è diverso rispetto a quello che si crea con il padre. La donna stabilisce una relazione estrema con la famiglia, questo è indiscutibile.
D. Il ruolo più bello che ha recitato e quello che avrebbe voluto recitare?
R. A 25 anni ho recitato con Luigi de Filippo “40 ma non li dimostra”, intramontabile esempio di umorismo di qualità. Io recitavo la parte di Sesella, la quarantenne protagonista femminile. Per me è stata una bella sfida perché non avevo né i connotati fisici né l’esperienza.
Sesella è una donna antiquata che vive con il padre, Don Pasquale Didomenico e le quattro sorelle “zitelle”. Don Pasquale, animato dall’intenzione di dare felicità a Sesella, cerca di combinare il fidanzamento fra la donna e il giornalista Luciano, un uomo più giovane di oltre 10 anni. Qui iniziano una serie di equivoci e Sesella, innamorata del giornalista, si trasforma in un personaggio grottesco e ridicolo. Una volta capita la situazione, ritorna ed essere la Sesella di sempre, quella che si occupa della casa. E’ stato un ruolo molto bello e triste allo stesso tempo.
Ho recitato un ruolo di prima attrice (quello della madre, ndr), anche in “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello, accanto al grandissimo Eros Pagni, a Gaia Aprea (la figliastra) e con la regia di Luca De Fusco. Durante il Covid abbiamo registrato il celebre dramma pirandelliano al Teatro Valle di Roma e presto andrà in onda.
Anche se si è trattato di una piccola parte, impersonavo il ruolo della prima attrice della compagnia e con la mia voce ho dato quel “colore” che ha impreziosito l’atmosfera.
Abbiamo portato la rappresentazione anche in Russia, a Parigi e in tutta italia. L’esperienza purtroppo è finita tre anni fa.
Per quanto riguarda il ruolo che avrei voluto interpretare, beh, non saprei… Forse Filomena Marturano.
Se potessi scegliere, mi piacerebbe inoltre dar voce ad una donna carismatica, per esempio Nora in “Casa di bambola” di Ibsen. Una donna che dice la sua, per intenderci.
Ad ogni modo, non ho un ruolo nel cassetto.
D. La lingua napoletana è diventata Patrimonio dell’Unesco. Passando da Jacopo Sannazzaro a Pietro Antonio Caracciolo, da Eduardo Scarpetta ad Eduardo De Filippo, si è definitivamente superato il bipolarismo lingua-teatro, ancora vivo nel teatro. Cosa ne pensa del teatro in dialetto? Secondo lei ha una marcia in più?
R. Oggi, fortunatamente il dialetto napoletano non è più considerato di “Serie B“, anzi ha una marcia in più, un colore unico e ha preso tutto il suo meritatissimo spazio. Per noi è stata una conquista. Io preferisco recitare in napoletano perché sento che è la mia lingua. Il mio, poi, non è il dialetto del vomero, quello borghese: io parlo quello di Raffaele Viviani, il dialetto del popolo, quello del cuore di Napoli. Ci tengo moltissimo a sottolinearlo.
Il dialetto napoletano ha conquistato anche il regista genovese Marco Sciaccalunga, che mi ha diretto ne “Il sindaco dei Rione Sanità”. E’ stata un’esperienza meravigliosa e ancor più straordinario è stato proprio il fatto che un genovese abbia saputo cogliere tutte le sfumature di una lingua così distante. Abbiamo portato l’opera di Eduardo a Genova e Napoli ed è stato un trionfo.
Nota dolente: recitare in teatro, in dialetto, cattura soprattutto gli appassionati.
Fai i salti mortali, ma difficilmente ti affermi, anche se sei bravissima.
Recitare in tv, in lingua italiana, mi è servito invece per entrare nelle case della gente. La fiction “ Un posto al sole”, dove dal 1996 al 1998 ho vestito i panni di Maria Boschi, mi ha dato ad esempio tanta notorietà.
Non mi vergogno a dire che quando mi riconoscono, la cosa mi fa un gran piacere. Sento che si è creata una profonda empatia con gli spettatori, uno scambio con la gente che mi dà i brividi.
D. La sua favola d’amore con Mario Scarpetta. Galeotto fu il palcoscenico?
R. Assolutamente sì! Con Mario mi sono divertita moltissimo, ho riso tantissimo. Ho recitato con lui nelle opere di Eduardo Scarpetta: “tre pecore viziose”, “o miedeco d’e pazze”, “o scarfalietto”. Quest’ultima è una pietra miliare del teatro, tanto che ancora oggi molti attori mi confessano che la scelta di calcare il palcoscenico è nata da li.
Fra di noi c’era un feeling fortissimo anche prima di fidanzarci. Ricordo un simpatico aneddoto: non appena recitavo la battuta “allora mo’ vado o paese e c’ho dico o zio”, iniziavo a ridere. Era come un riflesso condizionato. Quando la registrai non potevo ridere, ma ormai era diventata una malattia…
Lui era meraviglioso: ti faceva ridere, si divertiva a farti ridere in scena anche se non si poteva fare. Questo non lo dimenticherò mai. Abbiamo condiviso l’amore per il teatro e l’amore per la famiglia con lo stesso entusiasmo.
D. Un aggettivo per la parola teatro e uno per la città di Napoli
R. Per il teatro: terapeutico. Ti fa stare bene, ti dà forza, vitalità, adrenalina per andare avanti. E’ uno scossone ogni volta che ti avvicini ad un testo, che reciti, che vai sul palco. Ecco perché gli attori recitano fino alla fine: è una droga.
Napoli è indefinibile, imprendibile, unica. Per me è come una Ferrari senza benzina. Abbiamo un clima fantastico, una forte tradizione culinaria, arte e cultura da fare invidia, ma è governata male. Potrebbe e dovrebbe vivere solo di turismo e di cultura ma ci sono ancora tanti problemi. Gli stessi di sempre purtroppo.
D. Eduardo Scarpetta fu il creatore della “mezza maschera” Felice Sciosciammocca, a sua volta influenzata dal teatro dialettale di Antonio Petito (1822-1876, l’interprete di Pulcinella). Da allora il personaggio è divenuto l’archetipo di una certa classe sociale. Chi sono i Felice Sciosciammocca di oggi?
R. I figli di papà, della borghesia, quelli che vivono “galleggiando”, che non hanno avute esperienze dirette. Felice Sciosciammocca è un po’ l’archetipo della nostra gioventù, (non tutta ovviamente) che fortunatamente o sfortunatamente non ha dovuto fare la gavetta, non ha sofferto gli stenti e le privazioni.
D. Torniamo alla differenza fra teatro, cinema e tv: cosa le da più emozione: la magia del teatro, indossare un abito d’epoca, stabilire una connessione diretta con lo spettatore o il cinema e la tv?
R. Sicuramente, trovo più appagante stabilire una connessione diretta. La tv ed in cinema mi spaventano un po’, mi danno ansia. In teatro, dietro le quinte il cuore via a mille, ma quando stai sul palco si scioglie ogni paura. Tutto è magia pura e una volta sotto i riflettori ti tranquillizzi.
Inoltre, senti (a livello vibrazionale) la diversità degli spettatori.
Stanno tutti seduti in silenzio, apparentemente sono tutti uguali, ma appena si apre il sipario, ti rendi conto dell’umore del pubblico: se è più assente, più distratto o se “ci sta”, nel senso che segue, si commuove, è attento. Questa empatia è linfa vitale per l’attore. Diversamente, quando reciti per il cinema e la tv, hai bisogno di una concentrazione continua. Non che in scena non ti concentri, ma nel teatro la concentrazione nasce dal fatto che non puoi ripetere la battuta e il pubblico gioca un ruolo primario. Nel cinema sai che se sbagli puoi ripetere una battuta. Insomma c’è meno freschezza e spontaneità.
D. Eduardo De Filippo era molto sensibile al dramma dei giovanissimi mariuoli napoletani. Furono loro ad ispirargli un capolavoro assoluto quale “De Pretore Vincenzo”, inserito dallo stesso autore nel gruppo di opere “Cantata dei giorni dispari”.
Istituì altresì il villaggio Finageri (oggi chiuso) per recuperare i ragazzi rinchiusi nel carcere minorile dell’ex convento delle Cappuccinelle a Salita Pontecorvo e, da Senatore, fu l’autore della cosiddetta legge regionale «Eduardo», n.41 del 1987, che prevedeva «Interventi a sostegno della condizione giovanile in Campania».
Il teatro può salvare i giovani dalla devianza?
R. Assolutamente sì. Eduardo era molto sensibile al mondo dei giovani. Aveva capito che il teatro era l’unico modo per allontanarli dalla devianza. A Napoli, i giovani non vanno a scuola perché si annoiano o perché devono mantenere la baracca. Già per una famiglia “normale” è difficile contrastare la dispersione scolastica, figuriamoci per chi vive in situazioni di disagio.
Nel teatro, questi giovani hanno la possibilità di esprimersi interamente ed è così che salvi un ragazzo! È così che lo liberi dalla penosa alternativa di perdersi e di trovare rifugio nella droga o nella malavita. Il teatro ti dà una “seconda vita”. Giusto ieri parlavo con un collega che proveniva da un quartiere popolare, il quale mi ha confermato di essersi salvato grazie al teatro.
D. Facendo il punto sulla sua vita, come sintetizzerebbe il suo essere: donna, mamma e attrice?
R. Dovendo fare una graduatoria, al primo posto mi sento donna, poi mamma e infine attrice. Ho sempre prediletto la vita privata.
In genere quando mi rivedo sono molto critica con me stessa, eppure se vedo “o scarfalietto”, recitato all’età di 25 anni, mi rendo conto di quanto fossi brava.
Io volevo e voglio stare con i miei figli, mangiare con loro, crescere con loro. Sono loro la mia realizzazione.
D. Crisi del teatro: già prima del Coronavirus la gente andava sempre meno a teatro. Come mai e quali prospettive intravede per il futuro? Parafrasando la celebre frase di Eduardo in Napoli Milionaria, secondo lei “ha da passa’ ‘a nuttata”?
R. Certamente “ha da passa’…” Secondo me si dovrebbe istituire un albo per la nostra categoria, oggi troppo inflazionata. In altre nazioni gli attori sono aiutati dallo Stato, noi invece siamo abbandonati a noi stessi e al nostro destino. Chi ce la fa, bene. Gli altri soccombono. Il teatro va aiutato!
D. Dovendo spiegarlo ai giovani: a cosa serve il teatro?
R. Come dicevo prima, serve a salvarti; in aggiunta, serve a metterti in contatto con te stesso. Anche se non diventi attore, attraverso il teatro capisci chi sei, ti metti in gioco, metti fuori l’ironia, quando non sai neppure di averla. Il teatro ti aiuta a non prenderti troppo sul serio.
D. Quanto è importante la risata?
R. Marooo, la risata! È fondamentale. Una risata salverà il mondo e qui torniamo all’ironia.
Ironia vuol dire prendersi alla leggera con profondità, non attaccarsi alle cose che ci portano fuori dal nostro tragitto, alle cose che non servono, a cui ci appelliamo e su cui ci fossilizziamo. La risata è salutare, terapeutica.
D. Come vive Maria oggi e quali sono i progetti futuri?
R. Vivo sempre nel percorso teatrale ma, a differenza di prima, vivo molto in funzione dei miei figli, soprattutto di Eduardo, perché ha scelto questo mestiere e mi sento molto riflessa in lui.
Il 18 marzo andrà in onda “Carosello Carosone”, in cui recita la parte di Renato Carosone. È molto bravo. Credo sia una questione di dna.
Carolina invece è ingegnere gestionale presso le Scuderie Sansevero, sede dell’Atelier e del Laboratorio del Maestro Lello Esposito. Anche lei, in qualche modo, lavora nel campo artistico.
Per il resto, non ho progetti futuri. Spero solo che finisca presto l’incubo della pandemia, che torneremo a uscire, a condurre una vita normale, quella che ci annoiava, che non apprezzavamo fino in fondo e che invece adesso ci sembra importante.
D. Un suo personale consiglio a chi vuole intraprendere il percorso della recitazione.
R. Primo consiglio: studiate, studiate e studiate, perché la cultura è fondamentale.
Secondo consiglio: credete in ciò che fate e metteteci passione, perché questo è il segreto per riuscire.
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