Sembrava tutto abbastanza chiaro nell’ambito dello sviluppo preclinico (cioè della fase che precede la malattia vera e propria) dell’Alzheimer, ma ecco una ricerca che rimette molte cose in discussione attraverso una serie di test neuropsicologici.
Le Neuroscienze continuano a stupire. Si pensava ad un iter temporale specifico, ma questa tesi probabilmente è da ripensare. Cosa si è scoperto?
La ricerca portata avanti dai ricercatori ; Delano-Wood, Lisa Brandt, Jason (et al.) della University of California, San Diego School of Medicine e Veterans Affairs San Diego Healthcare System, e pubblicata on line in questi giorni (giugno 2015) sulla rivista Journal of Alzheimer’s Disease pone una serie di osservazioni ed interrogativi.
Ricordiamo quello che abbiamo scritto nei precedenti articoli sull’Alzheimer. La iperproduzione di una proteina (beta-amiloide) distrugge le cellule nervose. Questa proteina si accumula in maniera eccessiva e produce danni, creando delle placche che lentamente riducono la massa cerebrale (atrofia).
Dunque per più di 20 anni, i ricercatori hanno creduto che il morbo di Alzheimer (AD) fosse innescato da una cascata amiloide che, nel tempo, scatenava una serie di eventi che infine avrebbero provocato la morte del neurone.
Ma il nuovo lavoro da ricercatori della University of California rivela che questi eventi non sempre si verificano nella stessa sequenza. Gli scienziati hanno valutato 570 persone con segni pre-clinici di AD e scoperto che quella neurodegenerazione da sola era 2,5 volte più comune confrontata con l’ accumulo dell’amiloide all’inizio dello studio. Dunque non esisterebbe una sequenza specifica in questa neuropatologia.
La nostra attuale capacità di individuare fasi iniziali di AD è limitata dal focus sull’ accumulo di amiloide e l’aspettativa che i biomarcatori seguano lo stesso calendario per tutti gli individui”, ha detto Emily C. Edmonds, PhD, del Dipartimento di Psichiatria e primo autore dello studio. Ma, Edmonds ha detto, “AD è complessa, nel senso che ci possono essere diversi percorsi neurobiologici che portano alla espressione della malattia. I nostri risultati suggeriscono che il numero di biomarcatori anormali e marcatori cognitivi che un individuo possiede, senza tener conto della sequenza temporale, è il più predittivo per un futuro declino neurologico. “
Edmonds ha detto che i risultati sottolineano la necessità di migliorare l’identificazione delle persone a rischio di AD attraverso l’utilizzo di più strumenti di valutazione. Questo include test di apprendimento e di memoria sensibili in grado di identificare in modo affidabile cambiamenti cognitivi nelle primissime fasi.
Insomma, con questo studio, il rebus sull’Alzheimer appare oggi ancora un pò più complesso da risolvere.
Dr. Gherardo Tosi
Psicologo – Psicoterapeuta
00152 Roma
E. mail : tosighe@libero.it
Foto: la medicinainunoscatto.it
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