Fa un certo effetto vedere Pablo Iglesias, leader della formazione radicale spagnola “Podemos”, salire in maniche di camicia e con la coda di cavallo dal Re di Spagna Felipe VI, visibilmente infastidito, dall’alto del suo metro e novantasette, per le consultazioni istituzionale propedeutiche alla formazione del nuovo governo.
Un look e un abbigliamento, quello di Iglesias, molto più informale dei blue-jeans indossati da Bettino Craxi quando si recò al Quirinale per ricevere l’incarico di Presidente del Consiglio e fu rispedito a casa da un “indignado” Presidente Sandro Pertini, con l’ingiunzione di ripresentarsi in modo più consono e appropriato. Ma, mentre il nostro “Presidente partigiano” era stato eletto da oltre l’82% del Parlamento italiano, il povero Felipe V ha dovuto far “brutto a viso a pessimo gioco” per non sentirsi rispondere dal birichino Iglesias di essere diventato Capo dello Stato spagnolo solo grazie alle raccomandazioni di papà Juan Carlos. Ma Juan Carlos – proprio quello che ai mondiali dell’82 stava seduto a fianco dello scatenato Pertini, il giorno che l’Italia vinceva per la terza volta la Coppa del Mondo di calcio – era di un’altra stoffa.
Felipe, invece, dopo che le elezioni politiche del suo paese non hanno assicurato a nessun partito la maggioranza alle Cortes, non sa che pesci pigliare. Ha prima convocato Mariano Rajoy, Primo ministro uscente e capo del Partito popolare, la formazione che ha conquistato 123 seggi su 350, non sufficienti per comporre una maggioranza; Rajoy ha tentato di formare una “grosse koalition” alla tedesca, con il Partito socialista (giunto secondo con 90 seggi). Ma se Felipe non è Sandro Pertini, lui non è Angela Merkel. Dopo una serie di infruttuosi colloqui, nei quali era riuscito a ottenere soltanto l’astensione di “Ciudadanos” (“cittadini”, un’altra formazione radicale ma di destra), è tornato dal re per rinunciare all’incarico.
A questo punto, se Felipe VI avesse avuto un minimo di senso dello Stato, avrebbe comunque imposto a Rajoy di presentarsi alle Cortes per il voto fiducia con un governo monocolore. Avrebbe, inoltre, potuto almeno tentare di costituire un governo di emergenza – come spesso si è fatto in Italia; Napolitano docet – ventilando lo scioglimento delle Cortes e nuove elezioni. Solo questo annuncio, infatti, avrebbe smosso i socialisti, grandi sconfitti delle ultime consultazioni e i cui consensi, in caso di nuove elezioni, sarebbero andati a picco.
Il giovane re, invece, ha ricominciato con le consultazioni e, dopo aver ricevuto il leader socialista Pedro Sanchez, ha dovuto affrontare anche il “descamisado” Iglesias. Il nome del partito “Podemos”, tra l’altro, significa “possiamo” o, come traduce in italiano Giuseppe Civati: “possibile”. Appena uscito dalla Zarzuela (il Quirinale spagnolo), Iglesias si è dichiarato pronto ad appoggiare un governo a guida socialista che, comunque, per conseguire la maggioranza in Parlamento, dovrebbe essere appoggiato anche da altre forze, forse anche dagli indipendentisti baschi e catalani. Come se – a suo tempo – Bersani avesse dovuto comporre una maggioranza con 5 Stelle e la Lega di Bossi.
A quasi un mese dalle politiche del 20 dicembre, insomma, la Spagna è ancora nel tunnel di una crisi politica e istituzionale, di cui non si vede la fine. Di tutto ciò c’è qualcuno che gongola: il premier italiano Matteo Renzi. “Avete visto, voi che vi lamentate dell’instabilità del sistema democratico italiano? – Ha subito commentato il nostro Presidente del Consiglio – Se le elezioni spagnole si fossero tenute con l’Italicum, sicuramente, dopo il previsto ballottaggio, ci sarebbe stato un premier sorretto da una maggioranza parlamentare, in grado di governare. Vogliamo finire anche noi come loro?”
Federico Bardanzellu
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