Andrea Pomella: “Una bella sorpresa far parte dei finalisti del Premio Strega 2018”

Andrea Pomella, scrittore e giornalista de Il Fatto Quotidiano, scrive anche su Doppiozero e Rivista studio. Autore di monografie d’arte, tra le altre su Caravaggio e Van Gogh, ha pubblicato il saggio “10 modi per imparare a essere poveri ma felici” (2012) e il romanzo “La misura del danno (2013”. La sua opera più recente è il romanzo Anni Luce (Add Editore) con il quale concorre al Premio Strega 2018.

Chi è Andrea Pomella?

Un uomo di quarantaquattro anni che ha trascorso gli ultimi dodici mesi a ripensare alla propria giovinezza, a quello che è stato, alla piega che ha preso la propria vita rispetto alle attese dei vent’anni, senza cadere mai nella trappola della nostalgia, ma mantenendo sempre un’ampia libertà di giudizio.

Andrea, sei uno dei dodici finalisti del Premio Strega 2018 con il romanzo Anni Luce, una storia di formazione con una colonna sonora di eccezione, ossia i Pearl Jam. Ti aspettavi la nomination?

No, per niente. È stata una bella sorpresa. Mai avrei immaginato di poter portare una storia grunge nella dozzina del più importante premio letterario italiano.

“Questa è la storia di un viaggio al crepuscolo del secolo, una spedizione da vagabondi sulle strade d’Europa per esorcizzare la paura della vita adulta che bussa alle porte”, hai scritto nel tuo romanzo. Quanto la vita adulta spaventa i quarantenni del terzo millennio?

I quarantenni del terzo millennio non sono spaventati dalla vita adulta. La vita adulta ha spaventato gli uomini di ogni epoca – Lovecraft un secolo fa scriveva che l’età adulta è l’inferno. Oggi esiste una cosa chiamata gioventù “estesa” (io preferisco “diluita”, perché è un po’ come versare acqua nel vino, fino a far sparire del tutto il vino, ma continuando a chiamarlo, fino all’ultimo, vino). È un’invenzione dell’economia di mercato. I giovani sono i migliori consumatori, mentre gli adulti sono oppressi dall’etica del risparmio. Estendere la categoria dei giovani oltre i naturali confini biologici ha aperto nuove fette di mercato che prima erano impensabili. Così noi oggi ci sentiamo rassicurati dal mercato che ci permette di vestirci e comportarci come a vent’anni. È una trappola nella quale cadiamo quasi tutti.

Come è nata la tua vocazione per la scrittura?

Credo sia dovuta in gran parte al mio carattere introverso. Nella scrittura mi sono sempre sentito a mio agio, molto più che nel mondo vivo e parlante.

Ti senti più giornalista o più scrittore nel senso più puro del termine?

Non ho mai esercitato la professione del giornalista. Questo è un tempo di grandi imposture, e scrivere sui giornali non fa di te un giornalista. Quanto all’essere uno scrittore, è una qualifica che non dipende da te, ma che ti viene assegnata dalla comunità dei lettori. Un libro, una storia, esistono solo all’interno di un sistema di scambio: io dò voce e fatti, tu mi dai gli occhi e l’attenzione. In senso stretto mi sento uno scrittore ogni volta che qualcuno legge e discute un mio libro. Per il resto del tempo vivacchio senza chiedermi troppo cosa mi sento.

Che rapporto hai con i social network?

Ho un rapporto molto sereno, mi trovo a mio agio nei social network. Sarà che in quelli che uso io ci si esprime attraverso il mezzo della scrittura, quindi mi sento nel mio elemento. Ho molta più difficoltà a entrare in un negozio di abbigliamento e chiedere a un commesso se in magazzino hanno la mia taglia di pantaloni. Mi rendo conto che sembra il ragionamento di un disadattato. Ma vivo la realtà dei social network, come, appunto, una realtà, e non come una sottorealtà. In questo senso credo di aver raggiunto, anche qui, uno status da adulto. Sono un utente maturo e consapevole.

Si discute molto e spesso del cattivo (ed irrisolto) rapporto tra i giovani e la lettura? Che opinione hai al riguardo?

Penso che la questione non esista, poiché non esiste un problema tra giovani e lettura in senso stretto. Molti giovani hanno un problema con la lettura, ma ce l’hanno anche molti adulti, così come ci sono molti libri che hanno un problema con i giovani. A tredici anni avevo un’insegnante di lettere che mi impose la lettura de I Buddenbrook. Patii le pene dell’inferno, eppure oggi sono ugualmente un lettore forte. I miei compagni di classe di allora che non hanno sviluppato la passione per la lettura non possono incolpare quell’insegnante, tantomeno Thomas Mann. Ben vengano i percorsi di avvicinamento alla lettura, purché fatti con criterio e delicatezza. Soprattutto delicatezza. Non sono dell’opinione che leggere un libro sia in ogni caso una buona azione. Esistono una moltitudine di libri brutti, e spesso, alla lettura di un libro brutto è molto più sano anteporre una passeggiata nel parco.

Raccontaci le tue passioni private.

Faccio una vita che non mi consente di coltivare grandi passioni. E soprattutto non riesco a godere del piacere di una passione disinteressata. Se mi occupo di una cosa, devo farlo nel modo migliore. Ho un gran rispetto del tempo, e cerco di farlo fruttare sempre al massimo. Così il mio cosiddetto tempo libero (libero dalla schiavitù del lavoro da impiegato che svolgo per le normali necessità di sostentamento) lo impiego nella scrittura. Anche i momenti in cui leggo, o ascolto musica, o semplicemente rifletto mentre magari taglio la siepe in giardino, sono fasi creative che troveranno poi, in un modo o nell’altro, sbocco nella scrittura.

A che cosa non potresti mai rinunziare? E che cosa trovi completamente superfluo?

Non credo di poter rinunciare a nulla delle cose che ho e di cui faccio uso oggi. E poi rinunciarci per cosa? Per un voto di penitenza? Se riesco a rinunciare a qualcosa, vuol dire che era già di per sé superflua. In questo senso immagino di aver raggiunto un buon equilibrio tra le necessità e il superfluo.

Che cosa vuoi fare da grande?

Rileggere la Recherche. L’ho fatto a vent’anni, cogliendone solo ciò che era giusto a quell’età. È un’opera letteraria così grande che, riletta a cose fatte, sarà capace di estrarmi dall’anima il vero consuntivo.

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