A metà degli anni Cinquanta del XX secolo ci siamo imbarcati in quella che viene chiamata “la grande accelerazione”, una fase in cui la relazione uomo-natura vive un esponenziale aumento delle pressioni antropiche su tutti i parametri che contano per il benessere e lo sviluppo umano, con conseguente perdita di biodiversità, degrado del suolo, eutrofizzazione, inquinamento atmosferico, deforestazione, e così via.
La scienza è ormai giunta alla conclusione che siamo entrati in un’epoca geologica completamente nuova. Stiamo definitivamente lasciando l’Olocene, lo stato interglaciale stabile degli ultimi 11.700 anni in cui ci siamo sviluppati come civiltà moderna sulla Terra dopo l’ultima era glaciale, per entrare nell’Antropocene.
Il termine, coniato da Paul Crutzen e Eugene Stoermer nel 2000, non è ancora stato ufficializzato dalla Commissione Internazionale di Stratigrafia (ICS), e la sua data di inizio è ancora dibattuta. Si fa tuttavia presente che il primo studioso a proporre l’espressione “era antropozoica” fu il geologo italiano Antonio Stoppani nel 1873, il quale intendeva riconoscere già in quell’epoca la nuova forza trainante dell’uomo sulla Terra.
Secondo alcuni scienziati, l’Antropocene avrebbe avuto inizio 3mila anni fa, secondo altre posizioni nel 1700 con la Rivoluzione industriale; in base a studi più recenti l’inizio della trasformazione sarebbe invece da ricondurre alla metà del ‘900. In questa epoca, ad ogni modo, l’umanità è l’attore dominante del cambiamento sul nostro pianeta. In tal senso, l’espressione “Homogenocene” sarebbe il termine più specifico, usato per definire l’attuale epoca geologica; un’età in cui sembra non possa esserci sviluppo umano senza distruzione.
Ospiti da soli 200mila anni
La resilienza del nostro pianeta è straordinaria, e proprio questa sua eccezionale capacità potrebbe essere la nostra trappola. Già tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 numerose prove scientifiche permettevano di realizzare gli effetti devastanti dati dal raggiungimento del punto di saturazione, per cui cambiamenti improvvisi, bruschi e irreversibili avrebbero presto iniziato a minacciare il nostro sviluppo.
La grande ricchezza di biodiversità e la presenza di oceani e foreste ancora in grado di assorbire e tamponare le nostre pressioni antropiche hanno tuttavia lasciato che la nostra società potesse in un certo qual modo continuare ad agire pressoché indisturbata. Di fatto siamo cresciuti e sviluppati con minimi sacrifici nei confronti del sistema Terra.
Probabilmente la nostra specie ha ottenuto un parziale successo fintantoché l’uomo si è impegnato a far crescere il proprio piccolo mondo all’interno di un grande, immenso, pianeta. Ma nel momento in cui abbiamo scelto uno sviluppo smodato, siamo diventati i fautori di un realtà diametralmente opposta: protagonisti di una sconfinata e tentacolare società in grado di fagocitare ogni risorsa di quello che è ormai diventato per noi un piccolo e sovra-sfruttato pianeta.
Siamo 7,6 miliardi di cittadini sulla Terra, destinati a raggiungere 9 miliardi (secondo alcune stime 9,5) solo nei prossimi 30 anni. Abbiamo un’economia mondiale destinata a crescere tre volte nell’arco delle prossime due generazioni. La Terra ha 4,7 miliardi di anni, eppure come suoi ospiti siamo riusciti a metterla in ginocchio in soli 200 mila anni di vita, per cui oggi non siamo più in grado di fornire un reale ed equo benessere umano, se mai siamo stati capaci di farlo.
Una nuova rivoluzione
La definizione di sviluppo sostenibile è ormai entrata nel linguaggio comune. Quello che è scientificamente un principio ancora valido, rischia tuttavia di rimanere un miraggio e non trovare effettiva applicazione, almeno non su questo pianeta e ai ritmi attuali.
Ciò è sempre più riconosciuto, così come è ormai noto il ruolo che il cibo gioca come motore numero uno dietro alle innumerevoli realtà di sviluppo insostenibile esistenti. Sappiamo che il cibo è il più grande trasformatore di terra al mondo. L’80% della deforestazione mondiale, ad esempio, è guidata dallo sviluppo agricolo, inclusi allevamenti intensivi e produzione di cibo animale. L’agricoltura è anche la più grande fonte di gas serra, nonché il più grande singolo consumatore di acqua dolce – il 70% dell’acqua che preleviamo dai nostri fiumi, laghi e dalle falde acquifere viene utilizzata per l’irrigazione agricola; l’uso eccessivo di azoto e fosforo nelle pratiche agricole è inoltre la causa principale del processo di eutrofizzazione delle zone costiere e della perdita di biodiversità.
Solo tra 30 anni, allo scopo di offrire una buona dieta per tutti gli esseri umani, abbiamo bisogno di una nuova rivoluzione agricola, lontana dal modello industriale, seppur allora necessario, che ha caratterizzato la rivoluzione verde tra gli anni quaranta e settanta del secolo scorso. Una rivoluzione sostenibile verso un sistema alimentare locale e globale che rimanga entro i confini planetari dati dal clima, dalla disponibilità di acqua dolce, dalla garanzia di mantenimento della biodiversità da un lato e dell’equità sociale dall’altro.
Cibo e sviluppo
Il secondo degli obiettivi di sviluppo sostenibile – sconfiggere la fame – è spesso erroneamente descritto come riguardante solo l’eliminazione della fame nel mondo. Il fattore cibo necessita invece di essere pensato e attuato come il presupposto per un equo sviluppo umano universale. Uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente, senza andare a compromettere le possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri.
Abbiamo oltre 1 miliardo di cittadini malnutriti e denutriti nel mondo, e oltre 800 milioni che vanno a letto ogni sera, affamati. Non dimentichiamo tuttavia che vi sono quasi 3 miliardi di persone affette da malattie non trasmissibili e che soffrono di malnutrizione da sottopeso e sovrappeso, obesità. Il cibo è un fattore fondamentale, che determinerà il risultato di tutti gli obiettivi dell’Agenda 2030. Senza un cibo sano e sostenibile, il fallimento è annunciato.
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