Tra i molti ostacoli che il cammino della nuova legge elettorale deve scavalcare, l’ultimo -impostosi al centro dell’attenzione, ironicamente, nel periodo della festa della donna- riguarda le quote rosa. La questione divide il Parlamento, e lo fa anche anche trasversalmente, collocando da una parte coloro che le ritengono espressione di ipocrisia o semplicemente un elemento anche trascurabile, dall’altra chi le ritiene un passo fondamentale per una democrazia moderna.
Intanto c’è da fare chiarezza su cosa sono le cosiddette quote rosa. Il meccanismo consiste nel formare le liste, che ogni partito presenterà nelle varie circoscrizioni, rispettando un criterio per il quale una percentuale dei candidati deve essere donna (di solito, il 50%).
Alla loro introduzione è contraria Forza Italia, che sembra essere preoccupata per il fatto che esse potrebbero essere il preludio ad altre trasformazioni del testo di legge, che potrebbero risultarle sgradite. Si muove però su un piano un piano diverso Maurizio Gasparri, esponente di FI, il quale in un’intervista al Corriere della Sera afferma che «sarebbe una follia costringere i partiti ad operare solo scelte di sesso» costringendoli a candidare donne -o, viceversa, uomini- magari politicamente scarse.
Anna Finocchiaro invece si schiera tra i favorevoli, promettendo che se la Camera non dovesse correggere il testo «al Senato riprenderemo certamente a discutere di quote rosa». A In Mezz’ora la presidente della Camera, Laura Boldrini, afferma l’importanza di riservare candidature alle donne per operare un rinnovamento del Paese.
Spostando un attimo l’attenzione dal campo politico a quello della legge, notiamo che l’argomento è stato oggetto di ampie discussioni e ha visto spesso intervenire la Corte Costituzionale, la quale però non ha seguito una linea sempre coerente. Nel 1995 essa nega l’ammissibilità costituzionale delle quote rose perché frutto di una distinzione basata sul sesso, distinzione la quale violerebbe il principio di eguaglianza tra i cittadini, nel tentativo di favorirla. Nella stessa sentenza la Corte non distingue in proposito tra “candidabilità” (l’attitudine ad essere candidati) ed “eleggibilità” (quella ad essere eletti).
Questo orientamento viene modificato dai giudici costituzionali a partire dal 2003, con una sentenza dalla quale emerge l’ammissibilità di quote rosa che riservino posti alle donne, ma solo a livello di candidabilità: stabilire invece che un organo elettivo sia, a prescindere, costituito per una parte fissa da sole donne violerebbe il diritto di scelta degli elettori.
Detto in altri termini, è permesso inserire nella legge elettorale l’obbligo per cui la metà (o-nota bene- qualsiasi altra percentuale) delle liste siano composte da donne; ma non lo sarebbe affermare che il Parlamento debba essere composto per metà di un sesso e per metà dell’altro.
di Lorenzo Masucci
foto: repubblica.it
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