Le nuove tecnologie digitali, disponibili a prezzi sempre più accessibili anche per le PMI, stanno agendo in modo trasformativo sui prodotti e sui processi, dando vita a una vera e propria rivoluzione industriale. Alla prospettiva di un’economia fondata su talenti individuali e imprese innovative l’Italia deve guardare con particolare attenzione e interesse se vuole giocare la partita dell’innovazione.
La nostra è una realtà socio-economica povera di risorse materiali, ma ricca di un potenziale tecnico e scientifico che deve essere capitalizzato, creando ecosistemi dell’innovazione decentrati sul territorio e in grado di sostenere le migliori energie nella loro voglia di intraprendere. L’orientamento d’assumere è simile a quello che ha ispirato la cultura del “miracolo economico”, cioè la fase di intenso sviluppo con cui l’Italia ha compiuto un decisivo passo in avanti nel processo di industrializzazione, proprio in virtù del peculiare modello di imprenditorialità bottom-up che ne è stato alla base.
Particolare attenzione merita la creatività delle imprese artigiane e delle piccole imprese, dove alla possibilità del saper fare “tradizione”, si sta unendo l’elevato potenziale di innovazione che deriva dall’incontro di artigianalità e nuove tecnologie. A titolo di esempio si cita il caso di una ricamatrice e di un medico sportivo che insieme collaborano alla realizzazione di magliette in grado di registrare, attraverso sensori diffusi, parametri vitali di un atleta in azione, così come si stanno progettando racchette da tennis con sensori in grado di registrare la potenza e l’angolazione di un colpo. L’incontro di saperi considerati da sempre incompatibili genera innovazione e qualità, sia in quelli che vengono considerati i settori tradizionali, che in quelli più innovativi.
Si stanno infatti sempre più affermando i cosiddetti “makers”, gli artigiani del digitale. Quelli che amano ideare i propri “oggetti” da soli per poi costruirli controllando l’intero processo di produzione. Una figura, quella dell’artigiano moderno, che molti davano per scomparsa, per via del consumismo di massa e della tendenza delle aziende a trasferire all’estero la produzione per risparmiare sulla manodopera. E che, invece, non solo non è sparita, ma si sta reimmettendo sul mercato completamente rinnovata, resa ancor più forte dalle nuove tecnologie. I settori che hanno sperimentato l’incontro virtuoso tra tecnologia e saper fare artigianato sono diversi.
Se oggi il nostro Paese è leader in alcune tipologie di stampanti 3D è perché ricercatori e piccoli imprenditori hanno saputo lavorare insieme al miglioramento delle tecniche per la fusione a cera persa, che oggi tendono a essere utilizzate in molti altri contesti.
Per esempio mentre il coronavirus si diffonde a livello globale, la carenza di forniture mediche è diventata un grave problema. Per far fronte alle esigenze dell’ospedale di Chiari, nella zona di Brescia, dove la pandemia di coronavirus ha colpito duramente, per fare fronte al bisogno urgente di valvole per i respiratori che il produttore non era in grado di fornire abbastanza rapidamente, Christian Fracassi, che ha un dottorato di ricerca in scienza dei materiali ed è fondatore e Ceo di Isinnovam, una startup italiana di ingegneria, ha accolto la richiesta di aiuto e, attraverso una stampante 3D è riuscito a produrre quella che viene chiamata valvola Venturi e a fornirla all’ospedale per collegare la maschera facciale di un paziente all’erogatore di ossigeno a concentrazione fissa.
La tecnologia di stampa 3D, che consente la progettazione digitale e la realizzazione di parti create strato per strato, è ideale per la produzione di emergenza perché è veloce, economica e non ha bisogno di grandi fabbriche. Ma solleva problemi, che vanno dalla certificazione per l’utilizzo medico dei prodotti, ai brevetti detenuti dai produttori del dispositivo originale. In genere, le nuove parti stampate in 3D devono essere certificate. Fortunatamente le norme di emergenza durante la pandemia di coronavirus hanno permesso di rinunciare a tali requisiti.
Il tema della sburocratizzazione in Italia è fondamentale se si vuole puntare allo sviluppo. Oltre ad allocare risorse per la ricerca, l’Italia ha bisogno di creare le condizioni per fare impresa. Purtroppo la burocrazia mette troppi vincoli e blocca, mentre oggi sono più che mai sono fondamentali immediatezza e velocità. Quando torneremo alla normalità, la velocità sarà ancora più importante perché gli altri Paesi non si fermano e noi dobbiamo avere la giusta infrastruttura se vogliamo tener testa ai nostri competitor.
L’Italia è un paese di innovatori ma non è un paese per l’innovazione perché è ancora troppo difficile fare business. L’incontro fra “saper fare” di matrice artigianale e ricerca tecnologica produce risultati di rilievo, il problema è capire in che modo questo incontro può essere favorito e moltiplicato. La risposta richiede di riflettere sui contenitori all’interno dei quali questi percorsi hanno effettivamente preso forma in Italia.
In questi anni diversi Fab Lab e Makerspace hanno avuto il merito di declinare nel contesto italiano una formula che ha conosciuto rapida diffusione a scala internazionale. Per esempio il PoPlab di Rovigo ha sviluppato insieme alla storica fornace Terreal SanMarco un progetto di innovazione sui mattoni per il rivestimento di facciate, combinando la stampante 3D e la cottura artigianale dei laterizi. Il risultato è un rinnovamento dell’estetica del prodotto e un miglioramento dell’efficienza termica delle abitazioni. Non mancano sperimentazioni di successo all’interno delle Università più aperte al cambiamento: Polifactory, laboratorio sperimentale del Politecnico di Milano, ha collaborato con Prologo, piccola impresa della provincia di Monza specializzata nella produzione di equipaggiamento per ciclisti, sviluppando una nuova linea di selle su misura destinate alle e-bike.
Per acquisire una leadership nell’ambito dell’innovazione 4.0 il nostro Paese deve quindi sviluppare cantieri che diano un vero impulso a questi ambiti di sperimentazione, mettendo a regime Digital Innovation Hub (DIH) e Competence Center (CC), nati proprio per stimolare e promuovere la domanda di innovazione del sistema produttivo, rafforzare il livello di conoscenze e di awareness rispetto alle opportunità offerte dalla digitalizzazione. I Competence Center hanno il compito di fornire servizi, informazioni, dati, elaborazioni e contributi tecnico-scientifici in specifici ambiti. Soprattutto, dovranno consigliare le imprese su come investire le proprie risorse in materia di formazione.
Lo sviluppo dell’industria 4.0 era infatti, alla base della creazione di questi poli che, partiti con ritardo, dovrebbero agire in un contesto, quello della formazione digitale, ancora poco sviluppato nel nostro Paese. La forza di un DIH è invece quella di poter offrire un livello qualificato di servizi avvalendosi di un network di attori dell’innovazione, nazionali ed europei. In un sistema industriale come il nostro, carente di grandi imprese, ma particolarmente ricco in fatto di medie e soprattutto piccole imprese, start-up/ spin-off possono svolgere un utile ruolo di supporto ai fini dell’innovazione tecnologica, a patto che si creino le condizioni e si offrano i sostegni per una loro concreta affermazione.
Fonte foto: cnapisa.it
Articolo splendido che ci rida’ fiducia nella ripresa. La genialità italiana non ci farà morire. Importante che al Vertice ci siano persone in grado di capire e non distruggere.