E’ in scena al teatro Marconi di Roma, dal 22 al 25 marzo, Aspettando Godot di Samuel Beckett, con Pietro De Silva, Felice Della Corte (insieme nella foto), Roberto Della Casa, Riccardo Barbera e Francesca Cannizzo, per la regia di Claudio Boccaccini.
Devo dire che, sin dall’inizio, l’accoppiata Boccaccini – Della Corte era, per me, una garanzia, avendoli già applauditi, quest’anno, in una fantastica riduzione teatrale de Il Fu Mattia Pascal al teatro Ghione. Non hanno minimamente tradito le mie aspettative. E Beckett non è per nulla semplice.
Scritto in appena quattro mesi, a cavallo tra il 1948 ed il 1949, Aspettando Godot è un’opera che rappresenta una cesura netta rispetto alla narrativa, almeno così afferma lo stesso Beckett; narrativa generatrice di “causalità e sregolatezza”. La ricerca del senso della vita rende il romanzo materia plasmabile all’infinito, un luogo d’arte in cui ci si può perdere; il teatro, invece, è diverso, è circoscritto, è uno “spazio definito”, il “qui ed ora” dei fisici quantistici.
Il teatro dell’assurdo si innesta nella tradizione del teatro classico francese e del teatro boulevardier. Definito nei più svariati modi, da anti-teatro a tragicommedia, da pseudo dramma a farsa tragica, del teatro comico ha le battute, che battute, poi, non sono mai, contenendo un fondo di nichilismo assoluto, e ha le gags , che attingono alle parole ma anche alle espressioni, come in un film muto. Qui è la regia che gioca un ruolo essenziale, dovendo realizzare quello che in musica si chiama fraseggio, ossia l’interpretazione del testo secondo quello che l’Autore ha voluto dire e non solo secondo quello che ha detto. E la regia di Claudio Boccaccini è un fraseggio perfetto. Altrettanto dicasi per l’interpretazione degli attori, i quali entrano nei personaggi di Beckett scomponendoli, così come Beckett scompone il fatto, comprendendoli nei loro singoli atomi e tenendoli uniti nella realtà fittizia della scena. La parcellizzazione della realtà è tipica del teatro di Beckett. I fatti sono null’altro che una summa di elementi: presi singolarmente, possiedono caratteri separati. Nella convivenza dei diversi elementi che compongono il fatto, dunque, convive vis comica e vis tragica.
Sarebbe difficile e soprattutto sbagliato parlare di storia, di trama, di intreccio. Estragone e Vladimiro, i protagonisti, parlano, agiscono, recitano ai piedi di un albero spoglio. Aspettano Godot, un fantomatico personaggio che non hanno mai visto ma che dovrebbe dare finalmente senso alla loro vita. Ha un nome a metà tra Dio (God) e Pierrot, tra essere supremo e maschera malinconica, sopraffatta dalla vita, piangente. Dio è uomo e l’uomo è Dio: un cerchio in cui l’uno dovrebbe dare senso all’altro, mentre sono solo particelle di un tutto, prigioniere dell’aseità. E nulla ha più senso.
“E adesso che facciamo?”
“Non lo so”
“Andiamo via”
“Non si può”
“Perché?”
“Aspettiamo Godot”
“Già, è vero”
Nell’attesa infinita, tessono dialoghi che non approdano a nulla, sempre in bilico tra dimensione onirica e terrena. Interagiscono con altri tre personaggi di passaggio: Pozzo ed il suo servo Lucky, caratterizzati dalla contraddizione, in perenne conflitto eppure l’uno parte dell’altro; ed un ragazzo, che, per due volte viene a comunicare un contrattempo di Godot, il quale rinvia di giorno in giorno la sua visita.
L’attesa di Godot prende vita in una realtà denudata, spoglia, lunare, minimalista, nella quale trionfa la libertà di espressione; una realtà perfettamente realizzata sul palcoscenico del teatro Marconi grazie alla scenografia, alla musica ed alle luci, capaci di recitare con gli attori; attori che riempiono di parole il tempo che passa, che è, poi, l’unico senso che la vita offre di sé, persino di fronte alla morte. Ma il tempo di Beckett è un istante. Lo suggerisce Pozzo: gli uomini “partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, e poi è di nuovo la notte”. Salvatore Quasimodo direbbe “E’ subito sera”.
Neppure il tempo, dunque, è una certezza. Morire. Non morire. Andare. Rimanere. I personaggi di questa pièce sembrano abitare il mondo descritto da Pascoli ne La Vertigine: appesi a testa in giù nel buio siderale del cosmo, subiscono nascita, morte e quel che c’è in mezzo nell’attesa. Ogni elemento che caratterizza la vita è isolato nella sua essenza ed utilizzato per spezzare la monotonia, in realtà amplificandola. Il dialogo non prelude all’azione, a ciò che è, ma si esaurisce in se stesso, evidenziando ciò che non è. L’essenza è un’attesa infinita; e l’attesa è silenzio. Le parole sono un riempitivo. In ciò Beckett si ispira a Yeats, a quel che scrive in uno dei suoi componimenti poetici, “La vita è l’attesa di qualcosa che non giunge mai”. Mi ricorda il pendolo della filosofia di Schopenhauer, dove la parte migliore della vita corre lungo l’arco descritto dall’oscillazione tra due poli di dolore. Il dolore di Beckett è il nichilismo, la consapevolezza di una vita che non ha un senso, se non quello di scorrere sulla linea del tempo. In un mondo segnato dal materialismo, dal consumismo, dal possesso, l’opera di Beckett si presenta come un sorriso amaro rivolto a tutti gli uomini che si affannano per avere e persino per essere.
Linguisticamente, Beckett sperimenta uno stile asciutto come le storie che narra, e, proprio per questo, non lascia al caso nulla: ogni parola è scritta per uno scopo preciso, ogni segno d’interpunzione deve essere lì, per dare il senso del nichilismo alle sue parole. A volte si ha l’impressione di trovarsi di fronte a meri suoni e non a frasi. In questo senso la scelta di Boccaccini di caratterizzare i personaggi con diversi dialetti italiani, è una scelta originale e coraggiosa: il dialetto è quanto di più vicino alla manipolazione linguistica espressiva di Beckett. Bravissimi gli attori a farne uso, a lavorare molto sull’intonazione, che racconta il personaggio, il suo modo d’essere, le sue inclinazioni, sulla trasformazione delle parole in fonemi privi di senso, sulle pause, sui silenzi accompagnati sempre da un’ammirevole mimica facciale. Armata del mio amato binocolo da teatro, li ho studiati con attenzione: tutti bravissimi, hanno omaggiato la grande passione di Beckett per l’espressione pura, che è l’estrema sintesi della comunicazione, per le parole prive di parole, per il non-linguaggio, che egli sperimentò anche al cinema con Film, protagonista il grande Buster Keaton.
E’ difficile interpretare i personaggi di Beckett. Non sono vivi, sul palcoscenico, come quelli di Pirandello, che calcano le scene per raccontare una storia, la loro storia, per vivere con e per il pubblico in una metarealtà. No. Quelli di Beckett salgono sul palcoscenico sapendo d’essere lì, sapendo d’essere maschere e rendendo il pubblico edotto di ciò, sin dall’inizio. Dopo il magnifico monologo sul crepuscolo, Pozzo chiede a Vladimiro ed Estragone come sia andato, chiede se, sul finale, la sua recitazione non abbia perduto la vis interpretativa. La consapevolezza di trovarsi davanti ad una finzione scenica non è solo un gioco, ma un modo per comunicare che la finzione fa parte del teatro come della vita stessa. Anche la vita, infatti, è un grandissimo palcoscenico in cui ognuno ha un ruolo e non può uscirne: al termine della rappresentazione, finite le loro battute, gli attori, così come gli uomini, spariscono nel buio di un’esistenza che è al tempo stesso non-esistenza, nel buio di una fine che coincide con l’inizio. Ben lo sottolinea la scelta di Boccaccini di far assumere ai protagonisti la stessa posa di quando si è aperto il sipario.
Estragone e Vladimiro sembrano prigionieri di un girone dantesco di espiazione per il solo fatto d’essere vivi. Ma non c’è solo pathos, disperazione, c’è anche la comicità originata da un prepotente realismo. E c’è il trionfo del simbolo che, nel silenzio loquace che gli è proprio, arriva a comunicare con il pubblico. Gli abiti, a metà tra il clochard ed il comico circense, sono attaccati all’uomo, come se questi non potesse liberarsi della maschera, come se nella maschera fosse racchiusa la più nobile parte dell’uomo. Lo si nota sin dalla prima scena: Estragone non riesce a togliersi le scarpe, Vladimiro ha difficoltà a liberarsi della sua bombetta. Quando finalmente ci riescono, cercano qualcosa dentro quegli oggetti, forse una parte di loro. Nel cappello di Lucky, poi, è trasferito il pensiero. La scena corale in cui Lucky manifesta il suo pensiero, grazie al cappello che gli viene messo in testa, è raffinatissima arte teatrale, in cui, con la precisione cronometrica di una direzione perfetta e di un magistrale intervento di luci e musica, si giustappongono diversi piani di comunicazione: i concetti inesistenti si fanno sempre più astratti, la concitazione verbale va di pari passo a quella musicale che, lentamente, soffoca le parole. Le luci diventano rosse e si riflettono sul fumo. Torna Dante, nei miei pensieri: un inferno che origina dalla facoltà di pensare. Il cappello di Lucky viene, infine, gettato in terra, calpestato, ignorato, almeno fino a quella che definirei “la danza dei cappelli”, dove pensiero e non pensiero si alternano in Estragone e Vladimiro, in un girotondo che mima lo scambio di idee, o forse, il mancato raggiungimento di esse.
Potrei continuare all’infinito a parlarvi di Beckett e, soprattutto, del Beckett di Claudio Boccaccini, di Pietro De Silva, Felice Della Corte, Roberto Della Casa, Riccardo Barbera e Francesca Cannizzo, di Massimiliano Pace, autore delle musiche, di Francesco Barbera, che ha fatto parlare le luci, ma l’infinito non ha nulla a che fare con il limitato spazio giornalistico, purtroppo.
Al prossimo incontro di bel teatro, dunque.
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