Avventure e sventure delle parole

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Le parole hanno una loro vita autonoma. Seguono un loro iter a dispetto dell’intento di chi le usa, si intrecciano a caso creando significati improbabili, subiscono le deformazioni imposte dall’ignoranza rivelando attraverso inconsci lapsus pensieri segreti. Ne deriva un panorama cangiante e ricco di scoperte e di ironia.

Pronunciamento

Una di queste parole è il termine pronunciamento che i cronisti della radio e della televisione adoperano per riferire d’una decisione giudiziaria soprattutto della Cassazione. La prima volta che giunse alle mie orecchie durante un importante notiziario restai allibito.

Cosa mai era successo?
Quei severi giudici, resi saggi dall’esperienza e mansueti dall’età avevano inscenato una rivolta?
Avevano deposto il Primo Presidente, esonerato il Procuratore generale?
Perché il termine italiano “pronunciamento” è un derivato del sinonimo spagnolo pronunciamiento” che significa sovvertimento e prelude al colpo di stato.
La decisione del giudice è una sentenza, si chiama così e non c’è ragione di andare in cerca di preziosità linguistiche. E’ vero che certe sentenze sono un sovvertimento del significato d’una legge o della logica giuridica, ma non è consentito generalizzare.

Non a caso

Una locuzione che ricorre soprattutto nell’informazione politica o culturale è non a caso.
Non a caso il ministro ha detto…
Non a caso il sommo critico si è espresso…
Non a caso l’illustre pro ha ribadito…
Insomma le più diverse autorità normalmente si esprimono a caso, cioè parlano a vanvera, ma talora, in quella parentesi di consapevolezza che i vecchi psichiatri chiamavano lucido intervallo, ne dicono una giusta, o per lo meno, ragionevole.

Emerito

Una parola travisata nell’uso è l’aggettivo emerito.
“Dicesi emerito di persona che conserva il grado e la dignità d’un ufficio che ha cessato di esercitare” (v. dizionario Zanichelli).

Il giudice in pensione è emerito, il professore che non insegna più è emerito.
Molti ex titolari d’un ufficio continuano a gestire una coda del loro lavoro, giudici che fanno i consulenti, primari universitari che passano alla professione privata, operatori di settore che a buon diritto si qualificano come emeriti quasi a chiarire che non sono più le punte di diamante d’un tempo ma che vantano ancora esperienza e voglia di rendersi utili. Abbiamo avuto persino un Papa Emerito.

Ma la gente comune interpreta quell’aggettivo in senso superlativo, come eccezionale, valoroso, importante. Talora come superiore agli altri anche nel male. Ad esempio: “e’ un emerito delinquente”.

Di questa errata interpretazione qualche volta il professionista si avvale per pretendere onorari e compensi ormai non adeguati alla realtà contingente.

La mia collaboratrice domestica ha versato una cospicua somma nelle mani d’un medico “prof. emerito” sicura d’aver fatto un sacrificio finanziario giustificato dalla scelta del migliore. “Non è solo un professore, ma è un professore emerito” mi ha spiegato.

L’emerito per la verità l’aveva curata bene ma il carico di quella qualifica sull’importo della parcella non mi è sembrato giustificato. Insomma, un’emerita speculazione.

Locuzione manzoniana

Un mio zio di lontana memoria gestiva un suo podere in Calabria. In realtà di tutto si occupava il suo colono, un certo Cutrufo, abile ladruncolo, avaro e leccapiedi. Mio zio nelle festività e ricorrenze soleva, secondo gli usi, accordargli una piccola gratifica che, sempre secondo gli usi, il colono avrebbe dovuto contraccambiare con un modesto cadeau di prodotti dell’orto. Ma Cutrufo se ne guardava bene, limitandosi ad espressioni enfatiche di augurio.

In quel tempo ero ospite dello zio che a suo modo mi aiutava nei compiti scolastici.
Alle prese con la manzoniana morte di Ermengarda ed arrivati alla fine dell’ode non riuscivo a collocare nella giusta disposizione logica le parole del verso “al pio colono augurio d’un più sereno dì”.
“Zio, che centra il colono augurio e chi era?”.
Lo zio colse al balzo l’opportunità della battuta e rispose: “Come chi era, era Cutrufo”.

Un verso dantesco

Un altro mio parente un po’ don Giovanni soleva chiudere i suoi messaggi galanti firmandosi “il vostro pellegrin d’amore”. La citazione era quanto mai travisata perché l’amor di cui nel verso dantesco “l’ora punge il peregrin” è la nostalgia della terra lontana.

L’equivoca formula sembrava aver effetto assicurandogli la conquista della donna lusingata, meno quella d’una signora colta quanto scontrosa che gli rispose: “voi siete un pellegrino della cultura alle prese con una donna indisponibile e una terzina incompresa”.

Mozzafiato

Un termine non solo male usato ma abusato è l’aggettivo mozzafiato.
Che si parli del cielo stellato, della venere di Milo, della ciaccona di Bach, del panorama dolomitico o del rovescio a due mani di Nadal, pare che essi producano come effetto una sorta di apnea.

Non ci facevo più caso, pur essendo indispettito dalla ripetitività ottusa del modo di dire, finché un ignoto viandante, da me interpellato sulla pendenza della salita che in bicicletta mi doveva condurre dal piano all’abitato di Massa Marittima, non mi restituì il senso compiuto delle parole: “faccia un po’ lei , noi la si chiama spaccapetti!”.

Foto di Bruno da Pixabay

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