Il 31.10.2012 la Camera dei Deputati ha approvato e trasmesso al Senato il progetto di riforma della professione forense (A.C.3900-A): l’ennesima occasione persa per modernizzare una professione, spesso vituperata, che costituisce l’unico baluardo del cittadino per l’esercizio dei diritti di cui all’art. 24 Cost..
In questa sede ci limitiamo all’esame dei principi fondamentali, sui quali purtroppo c’è moltissimo da dire, senza entrare in temi importanti quali l’accesso alla professione, la nuova disciplina degli ordini ed il procedimento disciplinare, che richiedo autonomi approfondimenti.
Una considerazione di sintesi: non cambia quasi nulla, salvo la struttura dei Consigli dell’Ordine e del sistema disciplinare, e quindi non si vede la riforma a cosa serva. Le materie più innovative (società tra professionisti, tariffe, ecc.) sono delegate ad appositi decreti, spostando per l’ennesima volta la potestà legislativa dal Parlamento all’Esecutivo, come fin troppo spesso accade in questi tempi di ignorata rivoluzione sotterranea.
Si tratta di un esempio mirabile di tecnica legislativa all’incontrario: come non si scrive una legge. E’ un testo verboso, confuso, inutilmente complesso, che perde spesso la focalizzazione. Ma si sa che di questi tempi, per qualche ragione, il legislatore non sa esprimersi molto bene.
L’art. 1 contiene formule un po’ troppo altisonanti e lontane dal mondo reale, soffermandosi sulle finalità della legge che, come ogni giurista sa, non sono poi così rilevanti.
E’ subito interessante notare che il progetto di legge afferma di garantire l’indipendenza e l’autonomia degli avvocati: peccato che non si capisca come. Invero tali valori si garantiscono:
a) con una seria disciplina del segreto professionale, sul quale ci soffermeremo più avanti;
b) sottraendo l’avvocato a possibili pressioni ambientali, cosa impossibile quando l’avvocato è costretto a navigare e ad arrangiarsi nel disastro delle cancellerie o pietire rinvii non troppo lunghi, magari solo di un anno (!).
Sono curioso di capire come il nuovo Ordinamento Forense possa ottenere la prescritta “cura della qualità ed efficacia della prestazione professionale”. La prima è del tutto soggettiva; la seconda non dipende dall’avvocato, ma dal sistema giudiziario. Per entrambe servirebbe una riforma vera, ma prima ancora una rivoluzione culturale.
Del tutto pleonastico prevedere che l’Ordinamento favorisce l’ingresso “alla” professione (con buona pace della grammatica!) e “l’accesso alla stessa” (per giunta! … ma qual è la differenza?) “in particolare alle giovani generazioni”: e chi dovrebbe essere interessato a diventare avvocato? I pensionati?
L’art. 2 afferma che l’avvocato svolge con “libertà, autonomia e indipendenza” le attività di cui ai commi 5 e 6, cioè:
– comma 5: “l’assistenza, la rappresentanza e la difesa” (perché mai tre parole per un solo concetto?) in giudizio, ma non negli arbitrati irrituali e nella mediazione;
– comma 6: “l’attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale” (ancora inutili e fastidiose verbosità!), ma solo quella connessa all’attività giurisdizionale, svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato.
Quindi l’altisonante dichiarazione di libertà autonomia ed indipendenza non si applica a quasi tutta la consulenza, atteso che essa generalmente non è “connessa all’attività giurisdizionale”, né all’attività degli avvocati disorganizzati, o magari un po’ pigri e discontinui. Complimenti all’estensore e ai parlamentari che hanno approvato questo mirabile testo.
Seguono una serie di circonlocuzioni per affermare la legittimità dello svolgimento della professione nell’ambito di un rapporto d’impiego: siamo all’art. 2 ed è già chiaro che il legislatore non ha le idee molto chiare o non ha il dono della semplicità del linguaggio.
La fiera del pleonasmo continua con una dirompente affermazione: l’avvocato “è soggetto alla legge e alle regole deontologiche” (art. 2.4). E chi l’avrebbe detto?!
Ma anche con altre mirabolanti affermazioni: ad es. che il codice deontologico è reso accessibile a chiunque (neanche fosse un regolamento massonico!); che l’avvocato può difendere se stesso (art. 13); che l’incarico può essere svolto a titolo gratuito (art. 13); che l’avvocato è libero di non accettare l’incarico (art. 14).
Curioso notare che l’art. 2 menziona diversi principi fondamentali, come cardini della professione (indipendenza, lealtà probità, dignità, decoro, diligenza e competenza), che tuttavia si vaporizzano nell’impegno solenne (il “giuramento”) di cui all’art. 8, nel quale è menzionata solo la dignità.
All’art. 3 ecco che compare un biscottino avvelenato: per la prima volta si parla dei principi di “corretta e leale concorrenza”: il principio è sempre stato assorbito da valori fondamentali della professione (dignità, decoro, colleganza); la novità apre chiaramente la porta al vaglio dell’Antitrust, probabilmente già pronta a dire la sua su come operano gli avvocati, oltre che sulla pubblicità apertamente ammessa dall’art. 10. Non è detto che sia un male, anzi. Ma forse un po’ più di trasparenza in proposito non guasterebbe. E soprattutto un po’ di chiarezza su chi vestirà la toga del censore: l’Antitrust o gli organi di disciplina?
L’art. 4 crea una notevole confusione, del tutto inutile, tra associazioni tra avvocati e associazioni tra professionisti (che includono non avvocati): visto che sono legittime entrambe non si capisce il senso della distinzione. Tanto è confusa la norma, che al secondo comma consente la partecipazione di altri professionisti, mentre al terzo comma solo di avvocati. Non c’è da stupirsi, quindi, se da questa confusione esce fuori che un’associazione di professionisti che non coinvolga avvocati ma che indica tra le proprie attività quelle tipiche della professione forense, commette illecito disciplinare: ma se non ci sono avvocati chi viene sanzionato?
La questione delle società tra professionisti viene liquidata con una laconica delega al Governo. Ma ci sia consentita una domanda: se gli avvocati possono costituire una società, i soci e gli amministratori possono essere solo avvocati ma … non possono essere amministratori di società (restando vigente la vecchia regola del 1933, nel nuovo art. 18), chi gestisce la società? Forse è il caso di superare certe incompatibilità di facciata, figlie del secolo scorso. E ancora: se l’avvocato mantiene una responsabilità illimitata, perché dovrebbe costituire una società con responsabilità limitata? Visto che vi è – finalmente – un’assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile forse si potrebbe superare il concetto di responsabilità personale ultra vires. Magari … potrebbe essere regolata come quella dei magistrati!
Sempre in materia di responsabilità, benvenuta assicurazione per la responsabilità professionale. Una mancanza significativa, invece, è l’assenza di responsabilità per il sostituto o il coadiutore: l’art.14 prevede solamente la responsabilità di chi abbia il mandato: se vi è una attività di collaborazione retribuita e vi è un obbligo generale di assicurarsi, sarebbe giusto responsabilizzare i sostituti prevedendo che paga chi sbaglia, o quantomeno “anche” chi sbaglia. Ovviamente questo non vale per i collaboratori stabili dell’avvocato, che rientrano nella sua copertura assicurativa, ma vale per i domiciliatari o i sostituti d’udienza.
Arriviamo quindi ad una delle più grandi “marchette” della storia repubblicana: l’obbligo di polizza infortuni per sé e collaboratori. La nostra potente e celebrata “casta” è l’unica che si deve assicurare per lo scivolone o per la caduta accidentale, persino fuori dallo studio. Certo, l’assicurazione della macchina o del motorino non sono sufficienti; magari il collaboratore inciampa sui lembi della toga o si ustiona con il caffè … e la casta paga! Ma sì sosteniamo l’industria italiana, sosteniamo le assicurazioni, con tutto il lavoro che abbiamo possiamo permettercelo …o no?!? E ricordiamoci di comunicare gli estremi della polizza e ogni sua variazione all’ordine, altrimenti commettiamo un illecito disciplinare.
Ad avviso di chi scrive, una delle maggiori occasioni perse di questa riforma è la disciplina del segreto professionale, l’unico vero baluardo per l’indipendenza e l’autonomia dell’avvocatura. Invece che un limite per i terzi, esso è solo un dovere per l’avvocato, con tanto di licenziamento del collaboratore e procedimento disciplinare in caso di violazione. E per chi, invece, viola il segreto professionale dell’avvocato? Per chi sottrae documenti? Per chi va a spulciare illegittimamente le carte di un processo? Per chi si introduce con la forza, l’inganno o un provvedimento di perquisizione ed acquisisce materiali coperti dal segreto? Ah, già scusate, la casta siamo noi avvocati, non giornalisti e Procuratori della Repubblica che spesso e volentieri hanno costruito brillanti carriere sulla violazione del segreto professionale degli avvocati.
E in effetti, per meglio aiutare lo “Stato di Polizia” oggi si richiede di comunicare immediatamente all’Ordine non solo l’indirizzo del proprio studio professionale, ma anche gli altri uffici che l’avvocato dovesse stabilire (a pena di sanzione disciplinare). Francamente sfugge la ragione di tale prescrizione, piuttosto tipica di un sistema assolutista similsovietico, dove l’avvocato è quasi un funzionario dello Stato.
Ci sia consentito di sorvolare sul sistema delle specializzazione (di cui ad avviso di chi scrive non si sentiva un gran bisogno) e sull’aggiornamento professionale, crogiolandoci nella curiosità del sistema alternativo a quello dei crediti formativi che il CNF dovrà tirare fuori dal cilindro.
Di tariffe si è parlato tanto e si continua a discutere. Sarebbe interessante che il legislatore ci spiegasse perché al comma 3 dell’art. 13 si prevede la legittimità del compenso a percentuale e al comma 4 lo si vieta: per favorire le opposizioni da parte dei clienti morosi?
Ma ciò che veramente è inaccettabile è che il cliente vittorioso in giudizio non ha diritto a farsi pagare dal soccombente tutte le spese legali, che secondo lo stesso art. 13 sono liberamente concordate tra cliente e avvocato, ma quanto risulta dai parametri ministeriali, in aperta violazione di quanto previsto dal principio risarcitorio. Vale a dire: un mascalzone trascina in giudizio un cittadino e lo costringe ad anni di contenzioso, e ha anche il diritto di pagargli una modesta frazione delle spese legali che la sua vittima ha sostenuto. Chi punisce questa norma? La presunta “casta”? La norma danneggia solo e soltanto il cittadino che aveva ragione, già punito una volta dal comportamento del mascalzone ed una seconda volta da quello dello Stato, che non gli garantisce Giustizia in tempi ragionevoli.
Un altro tema delicato è quello della permanenza dell’iscrizione all’albo: essa è subordinata all’esercizio della professione in modo “effettivo, continuativo, abituale e prevalente”. La domanda è: quanto? Si rinvia ad un regolamento per non affrontare il problema ma, soprattutto in tempi di crisi, non si può glissare su una questione così spinosa. Vista la libertà e l’autonomia della professione, l’avvocato che attraversi una fase di difficoltà e non riesca ad avere lavoro non solo avrà un problema evidente di sussistenza, ma dovrà anche affrontare l’ordine per mantenere la possibilità di esercitare la professione.
E’ un tema spinoso che coinvolge anche la qualificazione come cassazionista (almeno secondo il vecchio regime) e la previdenza. Le risposte non sono semplici. Tuttavia stride nell’atteggiamento governativo da una parte l’apertura verso la concorrenza, il mercato, la libertà di azione e posizionamento, l’approccio quasi imprenditoriale, e al contempo, dall’altra parte, la chiusura su posizioni protezionistiche e di sbarramento quali quelle che emergono dalla disciplina della continuità professionale.
Il paradosso è che gli avvocati sono costantemente accusati di essere una casta e di infoltire i banchi del Parlamento, e questa riforma sembra scritta da persone che non solo non conoscono l’italiano (e purtroppo a questo ci stiamo abituando), ma che non hanno la benchè minima idea di cosa sia e debba essere la professione forense.
Avv. Alessandro M. Lerro
foto: adiantum.it
quando non si ha voglia di fare una legge e meglio non farla, piuttosto che farla male. ottima analisi