Un caso giudiziario di dubbia legittimità si è definito in questi giorni nel padovano mediante un insolito decreto che avrebbe affidato il figlio minore al padre, già condannato dal giudice penale per aver determinato lesioni permanenti affiancate a demolizione psichica verso la moglie che è la madre del bambino. Sembra l’incipit di un film horror, invece è successo davvero.
Questo signore, ufficialmente manesco e manipolatore che – oltre alle botte – ha lasciato la moglie senza soldi e senza cibo per anni, è stato ritenuto più adatto a garantire la stabilità emotiva del bambino, che è anche stato costretto ad assistere a queste attività delittuose commesse dal papà sulla propria mamma.
La motivazione sussisterebbe sulla diagnosi “borderline” della malcapitata a cui è stata tolta la collocazione abitativa del suo bambino, laddove la legge prevede – nei casi più gravi come questo – la collocazione del minore in una casa famiglia, ovvero in un ambiente neutro, protetto, sereno perché caratterizzato dalla presenza di altri bambini, oltre che personale specializzato.
Questo decreto, privo di precedenti formali di cui si auspica la non ripetizione, verrà riesaminato dal giudice d’appello ma rappresenta comunque un campanello d’allarme estremamente preoccupante per il mantenimento della civile convivenza tra persone in questo paese, come del resto è garantita dalle leggi e dai trattati internazionali.
L’estrema gravità di quanto è stato deciso consiste infatti nella dichiarata irrilevanza della condanna penale comminata al padre, come se si fosse trattato di un comportamento consentito e non punibile.
Ciò vuol dire che il comportamento pregresso e punito dalla legge a carico di un padre che distrugge fisicamente e psicologicamente la madre del proprio figlio minore in presenza di quest’ultimo, non avrebbe rilevanza nella crescita e nello sviluppo psicofisico del bambino.
Spero che si tratti di un brutto sogno, o magari di un fake, o il frutto di una deriva giudiziaria determinata da fattori esterni. Aver messo la vittima sul banco degli imputati è ascrivibile all’ipotesi dell’errore giudiziario e non solo. Magari, in un tempo non troppo remoto, questa donna sarebbe stata internata in un manicomio, ma neanche questo è il punto.
Questa donna aveva smesso di denunciare il marito, nonostante la condanna che non gli aveva fatto perdere l’abitudine di reiterare il reato in una dimensione di spazio e di tempo durata ben diciassette anni.
E la consapevolezza di questa impunità sostanziale provocar uno atto di rassegnazione preventiva nelle donne che non denunciano i mariti e i compagni che le picchiano in area domestica, privandole di ogni tipo di difesa e lasciandole in uno stato di totale abbandono morale e materiale.
Esattamente nello stato contrario promesso al momento del matrimonio o all’inizio della convivenza.
La paura della caduta del male paterno sui propri figli, induce le donne a rinunciare a sé stesse per morire lentamente nell’inferno di cui quasi nessuno si accorge.
Non abbiamo parole per concludere, non ci piace parlare di mostri, né vorremmo fomentare odio e confusione; non avendo potuto leggere le carte processuali non possiamo offrire una visione critica circostanziata nel dettaglio.
Ma chi è conclamatamente violento con la madre dei propri figli, non merita nessuna pietà. Neanche (e soprattutto) da loro.
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