Buono come il pane

Il pane è l’alimento che permea la civiltà umana, talmente ricco di significati simbolici e di intrecci da permetterci di unificare nella «civiltà del pane» tutte le culture del bacino del Mediterraneo.

Quanto è antico il pane?

Il pane comune contemporaneo ha seguito il percorso consueto della nostra alimentazione più antica: dalla Mesopotamia all’Egitto, in cui è divenuto un prodotto lievitato e cotto in forno, e dall’Egitto alla Grecia, in cui fu inventato il primo forno a caricamento anteriore, e poi a Roma, che lo diffuse in tutta Europa.

L’etimologia della parola pane, tuttavia, che nella radice sanscrita «pa» (la stessa di pasto) rinvia al nutrire, ha autorizzato, pur con qualche forzatura, la retrodatazione del pane agli albori dell’agricoltura.

Un alimento tecnologico e professionale

Se durante la parentesi della pandemia gli italiani hanno scoperto (o riscoperto) il pane casalingo fatto con il «lievito di birra» (Saccharomyces cerevisiae), l’agente lievitante industriale derivante dalla produzione dello zucchero di barbabietola, la storia della panificazione è caratterizzata da due elementi: tecnologia e professionalità.

Il pane, che non si trova in natura neppure a livello accidentale, è stato creato e perfezionato dalla civiltà umana finendo col prevalere, soprattutto in ambito metropolitano, sul suo antagonista più prossimo: la puls (la farinata di cereali o legumi cotti in acqua) che era il cibo dominante a Roma sino al II secolo a.C. ed è rimasta, come la polenta di mais o la farinata di ceci, uno degli alimenti tipici della civiltà contadina.

La tecnologia occorrente alla preparazione del pane è entrata progressivamente in tutti i suoi aspetti: dalla macinazione dei cereali, che impone l’uso dei mulini, alla lievitazione che anche nella forma della cosiddetta pasta madre presuppone una certa dimestichezza con la gestione dei processi chimici, sino alla cottura in forno.

Essa ha rappresentato il motore per la trasformazione del pane da prodotto di piccole «comunità del pane», in cui l’elemento centrale era la cottura in un forno comune di preparati domestici, a prodotto dei professionisti del pane, i panettieri: i soli in grado di gestire in modo ottimale tutto il processo e di rendere il pane un alimento di costo relativamente contenuto.

Il pane come forma di controllo sociale

La concentrazione in un numero relativamente limitato di produttori ha fatto del pane un naturale elemento di controllo sociale, che in epoca romana assunse un ruolo fondamentale, ma si è ripetuto anche successivamente con le corporazioni medievali, e di scontro sociale nei tumulti secenteschi con gli assalti ai forni (come quelli narrati da Manzoni nei Promessi sposi), nella rivoluzione francese, nelle lotte popolari dell’800 e del ‘900, trasformando il pane nel principale alimento politicizzato: già nel tardo medioevo la parola «compagno» indicava letteralmente «colui che mangia il pane con un altro».

Il pane e le rose

Da un aneddoto, probabilmente inventato, di Jean-Jacques Rousseau, è nato uno dei più diffusi falsi storici: la frase «S’ils n’ont plus de pain, qu’ils mangent de la brioche» (Se non hanno più pane, che mangino brioche) attribuita dai suoi detrattori a Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena e diventata il simbolo del disprezzo dei potenti verso le esigenze primarie delle classi popolari.

«Moti del pane» furono definite le rivolte che alla fine dell’800 si diffusero in tutta Italia e che a Milano, il 6 maggio 1898, furono represse a colpi di cannone dal Terzo Corpo d’Armata del Regio Esercito comandato dal generale Fiorenzo Bava Beccaris.

«Pane e lavoro» è stato lo slogan che ha caratterizzato le rivolte operaie e contadine dei primi anni del ‘900 e del secondo dopoguerra, mentre .nelle lotte studentesche della fine degli anni ’60 divenne popolare lo slogan «il pane e le rose»: la rivendicazione che affranca i lavoratori dalla semplice soddisfazione dei bisogni primari e che è stata recuperata in chiave borghese dal discorso pronunciato dall’attivista statunitense Rose Schneiderman nel corso di uno sciopero (detto appunto del pane e delle rose) del 1912.

Il crollo dei consumi del pane

«Nel 1861, anno dell’Unità d’Italia, gli italiani mangiavano mediamente oltre un chilo di pane a testa al giorno, oggi siamo scesi a 80 grammi, toccando il minimo storico» (WineNews).

Le ragioni del crollo dei consumi sono molteplici e non possono certo essere completamente ricondotte all’aumento dei costi delle materie prime.

Vi è, tra esse, sicuramente il cambiamento dello stile alimentare, in cui il valore simbolico e collettivo del pane è andato progressivamente perduto, accompagnato da una serie di falsi miti: il pane è nemico della dieta, il pane non è più buono come una volta, tutto il pane industriale è pieno di additivi dannosi per la salute.

Il pane è anche l’alimento più sprecato: in Italia mediamente, tra invenduto e non consumato, se ne gettano ogni giorno circa 13 mila quintali. Uno spreco indotto sicuramente dalla sua minore vita commerciale figlia della pretesa che sia croccante e fresco ogni giorno e di una cucina che per ragioni di tempo è sempre meno votata al riciclo.

I nuovi «pani»

Parallelamente al crollo dei consumi si sta sviluppando un nuovo approccio al pane da parte di coloro che ricercano, e sono disposti a pagare un prezzo da due a cinque volte superiore rispetto a quello del pane industriale, prodotti di assoluta eccellenza preparati con determinati cereali coltivati in determinati modi e realizzati in piccoli quantitativi e con tecniche arcaiche, che danno al pane, alimento popolare per definizione, una nuova veste di fatto inaccessibile ai più.

La combinazione di tutti questi elementi fa sì che di un alimento primario e ancestrale non conosciamo più il suo reale valore.

E non siamo più certi che il pane che consumiamo, anche per abitudine e per ragioni affettive, sia ancora «buono come il pane».

Foto di hadevora da Pixabay

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