Il nostro redattore Federico Girotti racconta il suo viaggio con la Croce Blu ai confini della guerra
Sono le tredici e cinquanta, una corriera dai finestrini appannati si ferma nel punto d’arrivo del centro profughi di Przemyśl, in Polonia, a 15 km dalla frontiera ucraina. È un altro giorno di pioggia ma ciò non interferisce con gli arrivi. La prima a scendere è una ragazza con in braccio il suo cane. Fa qualche passo avanti guardando il terreno che sta calpestando. È forse la prima volta da quel giovedì 24 febbraio che cammina su una superficie sicura. Dietro di lei altre dozzine di persone si affrettano a raccogliere zaini e sacchetti. Qualche bambino si guarda attorno, ora non ci sono più finestrini a dividerlo da quel nuovo mondo con le sembianze di un parcheggio affollato. È il turno dei più anziani, diversi volontari si prestano a prendergli i borsoni con quello che è rimasto di una vita intera. In fila si incamminano verso il punto di registrazione. Alcuni, prima di superare il check-point, si voltano un’ultima volta indietro, poi scompaiono oltre le porte d’ingresso. La corriera si allontana. Non c’è più nessuno.
Questa è la storia di chi arriva e di chi parte
Secondo il rapporto pubblicato in data 5 aprile 2022 dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, oltre 7 milioni di ucraini risultano sfollati internamente, quindi costretti ad abbandonare le proprie case e città di residenza per cercare rifugio in altre zone del paese. Le stime dell’UNHCR mostrano come dall’inizio della guerra fino ad oggi, sono 5,4 milioni le persone che hanno lasciato l’Ucraina. Ciò rappresenta la crisi migratoria più grande dalla Seconda guerra mondiale. Uno dei principali punti di arrivo sul confine polacco è il centro profughi di Przemyśl, distante circa quattro ore d’auto da Varsavia. Attualmente la Polonia risulta il paese che più ha accolto profughi, intorno ai 3 milioni – dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati – ovvero oltre la metà di tutti gli arrivi.
Dentro al centro profughi
Oggi la struttura di questo punto di primissima accoglienza appare molto più organizzata ed efficace nella gestione della crisi migratoria rispetto ai primi tempi. Il viaggio dei rifugiati verso il centro inizia da diverse città ucraine, ma Leopoli rappresenta la principale stazione di partenza. Il maggior numero dei profughi arriva tramite pullman e treni, poi ci sono i casi di chi supera la frontiera a piedi o con le proprie auto. Lo si evince anche solo osservando i molteplici veicoli con targa ucraina parcheggiati, spesso con la scritta “дітей” – bambini, in ucraino- . Una volta arrivati è necessario registrarsi, così che la struttura possa controllare il flusso in entrata e rilasciare il braccialetto identificativo ad ogni persona. Da lì in avanti il nome che avevano prima non avrà più importanza, sarà lo scanner all’entrata ad essere l’unico in grado di riconoscerli.
La gestione dei profughi
Il passaggio successivo è decidere un paese dove immaginarsi un futuro. Una fila di tavolini divisi dalle bandiere rappresenta il cancello d’ingresso per una nuova vita. Ci sono molteplici desk rappresentanti tutta Europa. I volontari di ogni nazione si impegnano ad accogliere le richieste di migrazione; devono individuare le città e le strutture che possono ospitare i rifugiati, organizzare le partenze, gestire i casi speciali e infine selezionare gli autisti disponibili ad accompagnarli verso una nuova casa. Gli episodi di traffico illegale umano sono già presenti e c’è la massima attenzione a chi affidare intere famiglie. La pressione è alta e il lavoro non finisce mai. Come nel caso dell’ufficio italiano, formato da un piccolo gruppo di giovani volontari auto organizzati che gestiscono ogni giorno centinaia di profughi. Secondo le loro stime, solo dai primi di marzo più di 15.000 persone si sono sedute al loro tavolo con la richiesta di andare in Italia e oltre 90.000 sono passate per il centro.
Una volta individuato lo stato che li accoglierà, le persone cercano posto su una delle tante brande stipate nei saloni della struttura. Essa rappresenterà la loro stanza, armadio e letto per diversi giorni. C’è chi ha bisogno dell’infermeria, chi accompagna i propri figli nelle sale di svago per i bambini, chi si siede nella mensa o chi decide di concedersi una pizza calda donata dalla missione italiana di volontari Croce Blu e Italpizza. In questa fase sensibile le persone cercano rifugio dentro il rifugio.
Il centro, infatti, appare un luogo molto caotico e affollato ad ogni ora del giorno. Non mancano i bambini che giocano a calcio nei corridoi, i militari che forniscono ogni tipo d’assistenza e le persone che preferiscono distrarsi nella confusione piuttosto che pensare nel silenzio.
“Vietato gonfiare palloncini” è scritto in diverse parti del centro. Si teme che il loro scoppio possa riecheggiare un suono che la maggior parte dei presenti cerca di dimenticare. Su alcune pareti sono attaccati dei disegni fatti dai bambini per passare il tempo. In uno è raffigurato un podio, sul primo posto c’è un omino con bandiera ucraina, appena sotto si nota il colore della Polonia e sull’ultimo gradino, invece, una figura calcata con più intensità, divisa da tre colori: bianco, blu e rosso. Qualcuno poi l’ha cancellata, nel tentativo di sbarrarla per sempre dalla propria vita.
Lo scorrere del tempo all’interno del campo
L’attesa è ciò che compone le giornate dentro il centro d’accoglienza. Dal momento del loro arrivo fino alla partenza si tratta solo di attendere, nel mezzo si può trovare qualche piccolo frammento di umanità. Un sorriso di una bambina quando le viene regalata una caramella. La musica dello stand delle pizze italiane. La possibilità di potersi togliere le scarpe per andare a dormire. Lo svegliarsi per le risate dei propri figli e non a causa della sirene. La foto del marito al fronte che riesce comunque a sorridere.
La struttura è predisposta al fine di ospitare in modo provvisorio le persone che entrano. I tempi medi di permanenza nel centro variano dai cinque ai sette giorni, ma sono tanti i casi di persone rimaste ad aspettare per più di un mese.
Anche in quella continuità uniforme non mancano certi momenti in grado di dare un minimo di calore e tregua agli ospiti del campo. Il giorno della Pasqua ortodossa viene celebrato con lunghe tavolate nel salone principale. Si servono piatti tipici ucraini, ci sono canzoni cristiane e viene improvvisato uno spettacolo per i bambini. Quella domenica prende d’un tratto suono di risate. Per qualche ora è come se le famiglie si fossero riunite, non portandosi a tavola il passato recente. Le persone nel centro profughi vivono giorno per giorno. Non sanno cosa le attende l’indomani e quello che c’era prima non esiste più. Ad ogni modo, la speranza va pari passo con la malinconia; sono in molti a voler trovare un alloggio in Polonia, non distante dal loro paese, per essere pronti a tornare a casa se mai un giorno la loro casa gli verrà ridata.
Chi parte e chi rimane indietro
Non tutti quelli che potevano sono scappati, oltre alle persone che per obbligo non possono lasciare il paese – agli uomini dai diciotto anni fino ai sessanta è vietato uscire dall’Ucraina – in molti hanno deciso di rimanere nonostante il rischio quotidiano di perdere la vita. Arrivano così adulti che hanno dovuto lasciare soli i genitori anziani o ragazzi completamente abbandonati a sé stessi. Questo è il caso di Vera, una ragazza di Leopoli che ha deciso di non continuare a svegliarsi ogni mattina chiedendosi se fosse ancora viva. Ha lasciato la sua casa e sua madre, la quale non ha voluto andarsene. Ora Vera vive, come tanti, con il senso di colpa per essersi messa in salvo. Continua la sua esistenza con il pensiero che ogni passo in avanti è un passo più lontano dalla vita alle sue spalle.
La notte quieta i corridoi. Le luci non si spengono mai e alcuni bambini continuano a rincorrersi tra una brandina e l’altra. Loro sono quelli che più faticano a prendere sonno. “Non riescono più a dormire. Non dormono più.” dice una madre. Si sono accorti di aver dimenticato i sogni in un posto ormai lontano.
Alona sta preparando le ultime cose per la partenza del giorno dopo. È con suo figlio Anatolij, un bambino di nemmeno due anni e sua madre anziana – la babusya, come la chiama lei- . Ha infilato nella carta stagnola una pizza calda, dice che la terrà per il viaggio. Sono diretti in Irlanda. Quando gli viene chiesto se conoscono qualcuno là, lei scuote la testa. “Nessuno” risponde. Fino a poche ora prima non sapeva niente di quel paese. Racconta di come dall’inizio dell’invasione russa ha vissuto con suo marito a Kiev, passando le notti durante i bombardamenti nascosti nella vasca da bagno, il punto più sicuro della casa. Con suo marito pensava di poter sopravvivere così. Poi, una mattina, mentre si trovava in cucina una pentola le cadde di mano. Il rimbombo fece alzare di scatto suo figlio e correre verso il bagno, bussando e scalpitando contro la porta, chiedendo che gli fosse aperta. Lei guardò suo marito, in quel momento decisero che la loro vita non poteva continuare in quel modo, che Anatolij avrebbe dovuto imparare a parlare non chiedendo che una porta gli venisse aperta. Si sono salutati fingendo di non pensare che quello potesse essere un addio. Si commuove dicendo che ciò che più teme non è di non rivedere mai più la persona che ama, ma che suo figlio possa scordarsi il volto di suo padre. Non sa come immaginarsi il domani, non è mai uscita dall’Ucraina, non ha mai preso un aereo e non conosce altro che il colore dei campi di grano vicino a casa.
Le persone sdraiate guardano il soffitto, in molti prima di chiudere gli occhi salutano in videochiamata chi non è lì. Tutti si addormentano uniti non dalla vicinanza di un letto all’altro, bensì dall’unico pensiero in comune: casa.
Questa è la storia di donne senza uomini, è la storia di figli senza padri. Sono loro le vittime della guerra, coloro che sono riusciti a scappare e che ora si trovano sul confine tra ciò che non esiste più e quello che sarà.
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