Nell’articolo precedente ci siamo immersi nel mondo della Roma tardo cinquecentesca, fatta di delinquenti e maestri d’arte, di cardinali e ubriaconi.
Caravaggio rimarrà ancora nella Città Eterna, dove il suo genio e il suo estro daranno il via a una reazione alla maniera come forse non si era mai visto prima. Tuttavia, come si suol dire, “il lupo perde il pelo ma non il vizio” e la sua vita di eccessi lo porterà via dalla capitale del mondo artistico, in giro per il sud Italia nella speranza di una redenzione personale e divina.
Caravaggio, entra dunque nelle grazie del cardinal Francesco Maria del Monte, un uomo colto e amante delle arti, della musica e si dice appassionato di alchimia. Offre al Merisi vitto, alloggio e protezione a palazzo Madama e la conseguente pace per poter alternare soggetti sacri a profani.
Roma tra innocenza e peccato
È il periodo in cui realizzerà “Giuditta e Oloferne” (1599): la giovane principessa ebrea sembra quasi riluttante nel decapitare il tiranno assiro, forse incoraggiata dalla vecchia serva, Abra, pronta a raccoglierne la testa in un lenzuolo. I volti, la gestualità, tutta l’ambientazione hanno un gusto morboso e perverso.
La modella utilizzata per il dipinto è ancora fonte di dibattito: c’è chi la ritiene la cortigiana e amica del pittore Fillide Melandroni, chi invece pensa sia la cortigiana romana Maddalena Antognetti. Fatto sta che Caravaggio rimane fedele al suo spirito sbarazzino e presenta Giuditta a seni nudi, in seguito coperti da un velo.
Nella Roma del Cinquecento le cortigiane, prostitute di alto borgo sono tantissime, tanto che per regolamentarne la presenza alcune sono costrette a vestirsi di una mantella gialla, non a caso lo stesso colore che spesso accompagna le modelle del Caravaggio. La Roma di quei tempi era la capitale della cristianità e del peccato.
(Quest’opera ispirerà molte versioni future realizzate da Artemisia Gentileschi tramite le quali cercherà di esorcizzare la sua repulsione per gli uomini, in quanto fu violentata da un amico del padre e dello stesso Caravaggio).
San Luigi dei Francesi e le Storie di San Matteo
Ben presto, il cardinal del Monte gli procurerà la prima commissione veramente prestigiosa: la decorazione con episodi della vita di San Matteo a San Luigi dei Francesi, su commissione del cardinale Mathieu Cointrel. I soggetti erano già stati scelti dal cardinale, l’allora maestro delle finanze, nonché uomo assai corrotto: le storie di San Matteo legavano il cardinale più per il rapporto con il denaro che per il nome. Il cardinale raccolse una fortuna dispensando privilegi e benefici ecclesiastici ai migliori offerenti.
Gli episodi della “Vocazione di San Matteo” e il “Martirio di San Matteo” (1599-1600), segneranno una svolta nella vita e nell’opera del pittore, ma non lasceranno da parte lo sdegno dei suoi contemporanei. Caravaggio ambienta una scena sacra al banco delle tasse di un esattore al lavoro. In tal modo, abbatte completamente la differenza tra divino e quotidiano.
Caravaggio illustrerà temi biblici all’interno della cornice del mondo romano popolare, i personaggi vestono alla maniera contemporanea del tempo e i modelli sono gli stessi che aveva usato fino ad ora per rappresentare bari o sbandati. Nell’episodio della “Vocazione”, solo il Cristo e San Pietro vestono all’antica: la figura del Messia è quasi nascosta nella tenebra, totalmente in secondo piano, in quanto il vero protagonista del dipinto è la luce, che dall’alto, a destra di Gesù illumina il santo, indirizzandolo verso l’apostolato. La luce è il mezzo direzionale dell’azione, da destra a sinistra e poi da sinistra a destra tanto che Matteo indica sé stesso, come per dire “ma che ce l’hai con me?”.
Il trittico è concluso con il “San Matteo e l’angelo” (1602): il dipinto viene immediatamente rifiutato perché il santo è rappresentato come un rozzo contadino sporco e analfabeta, tanto che è quasi l’angelo a suggerirgli il vangelo da scrivere. (Ad oggi si conserva solo la seconda versione eseguita dal Merisi nello stesso anno. La prima versione andò distrutta durante i bombardamenti di Berlino del 1945).
La vita sregolata continua
Il Caravaggio si ritrova di nuovo con amici di bassifondi, tra taverne e risse da strada e Costantino Spada riesce ancora a tirarlo fuori dalla sua vita sregolata trovandogli una commissione prestigiosa: la cappella Cerasi a Santa Maria del Popolo per la realizzazione di una “Crocifissione di San Pietro” e la “Conversione di San Paolo” (entrambi del 1601). La commissione gli porterà 400 scudi, utili per continuare la sua vita di eccessi e vecchie abitudini.
Anche qui, le prime versione di entrambi i dipinti furono, ancora una volta, seccamente rifiutate, ma anche alle seconde non furono risparmiati sconti. La “Crocifissione” getta nel panico i carmelitani di Santa Maria del popolo: i carnefici sembrano degli imbranati, faticano a sollevare la croce su cui è inchiodato San Pietro e come se non bastasse, uno dei modelli usati per gli aguzzini è un noto compagno di bevute del pittore.
Nella “Conversione” la maggior parte della tela è occupata dal sedere del cavallo. Un bello smacco alla cultura del decoro di quegli anni, con le sue severe regole sull’arte sacra stabilite dal Concilio di Trento, secondo il quale le scene e personaggi devono essere chiari e leggibili. Il cavallo rappresenterebbe l’irrazionalità del peccato e la luca la Grazia divina che, investendo l’animale, fa si che questo non calpesti San Paolo.
Il clamore suscitato da queste opere sarà poca cosa in confronto alla “Morte della Vergine” (1604). L’ambientazione è ridotta al minimo, nessuna sontuosità, nessuna morte estatica, mistica. “Si piange la morte di una popolana, ben conosciuta nel quartiere” scriveva Roberto Longhi. Si dice infatti che il pittore utilizzò come modello per la Vergine una prostituta, trovata morta annegata, forse suicida, nel Tevere. Il ventre gonfio, il braccio abbandonato, il volto vitreo. Il dipinto, realizzato per i Carmelitani Scalzi di S. Maria della Scala, viene ovviamente rifiutato all’istante.
Caravaggio tra sante, prostitute e cortigiane
Gli anni successivi sono segnati sia da un periodo di intensa produzione artistica, che dai soliti problemi con la giustizia: il Merisi viene arrestato per aver “aggredito” a colpi di coltello un certo Girolamo Spampa colpevole di aver criticato alcune sue opere; viene accusato di aver scritto o fatto scrivere sonetti diffamatori contro il suon nemico, pittore e futuro biografo Giovanni Baglione. Dati i suoi precedenti, i protettori del pittore fanno sempre più fatica a scarcerarlo e il Caravaggio promette di mettere la testa a posto.
Accetta allora un’altra importante commissione: la “Madonna dei pellegrini” (1604-1605) per la chiesa di Sant’Agostino. Nonostante gli avvertimenti degli amici, Caravaggio decise di usare come modella per la Madonna una nota prostituta d’alto borgo di Piazza Navona, tale Lena. La ragazza era ben nota in città, dove dispensava i suoi servigi a ricchi mercanti e cardinali. Quel che successe in seguito non è chiaro: forse il notaio Mariano Pasqualone, cliente di Lena, non era troppo entusiasta delle assenze della ragazza o forse il nostro pittore fu colto da un attacco di gelosia. Fatto sta che il Pasqualone si reca ferito e sanguinante dalla polizia, denunciando l’aggressione da parte di Caravaggio. Il pittore lascia subito Roma per Genova, ma il notaio ritira la denuncia e il Merisi può tornare nella capitale e concludere la sua commissione.
Il processo di attualizzazione e desacralizzazione attuato con questo dipinto è assoluto. Baglione la definirà un’opera semplicemente oscena e i padri di Sant’Agostino sono incerti se pagare o meno l’artista. Caravaggio, non contento delle critiche, sfogherà la sua frustrazione in una cena imbevuta di vino: sentendosi servito male, lancia un piatto di carciofi bollenti in faccia a un cameriere, provocando ovviamente una rissa generale. Ancora una volta i suoi protettori riescono a “metterci na pezza” e farlo scarcerare.
Per farsi perdonare per l’ennesima volta, Caravaggio realizza il “San Girolamo scrivente” (1606) e una seconda “Cena in Emmaus” (1606). Il suo talento è all’apice, tanto da raggiungere la perfezione.
L’occasione della vita
Caravaggio ottiene così l’appoggio e la protezione del principe Colonna, grazie al quale realizzò molte opere che lo porteranno ad essere apprezzato da Scipione Borghese e poi, tramite papa Paolo V, zio di Scipione, gli offriranno l’occasione della sua vita, il sogno di qualunque artista dell’epoca: lavorare a San Pietro, la più grande chiesa del mondo e del mondo della cristianità.
Viene ingaggiato per una Madonna, la “Madonna della serpe” (1606), ma siccome ormai si è capito è de coccio, che fa? Sceglie di nuovo come modella Lena! La prostituta de piazza Navona! Un disastro. Tutto il dipinto suona come un enorme bestemmia: Sant’Anna è una vecchia contadina, la Madonna una lavandaia e Gesù è nudo e crudo. È una famiglia di campagna che schiaccia una serpe davanti l’androne di una stalla. Una tela che, a detta dei suoi nemici, esprime volgarità e sacrilegio.
Gli anni che hanno segnato la storia
Sono gli anni in cui Galileo studierà le sue teorie dell’universo, Giordano Bruno brucerà sul rogo per difendere le sue teorie contro i dogmi della Chiesa e Caravaggio tradurrà le sacre scritture con le sue opere promiscue e peccaminose, che così tanto riflettono la realtà cittadina romana.
Si chiudono quindi le porte di San Pietro e della sua consacrazione.
Ritorna alle scorribande notturne, ma questa volta ci scappa il morto. Caravaggio si doveva incontrare di notte con un sergente della Corte che viene ritrovato morto con il cranio sfondato. Il pittore sostiene che gli è caduta una tegola dal tetto. Viene incarcerato e subisce la pena del “cavalletto”, un interrogatorio a colpi di scudiscio, il cui eco e ricordo sarà visibile anni dopo nella “Flagellazione di Cristo” (1607).
I suoi amici riescono a farlo evadere corrompendo due guardie, ma non si riesce a far ritirare l’accusa.
Continuano le liti e il 29 maggio 1606 durante una partita di pallacorda Caravaggio accusa il suo avversario, Ranuccio Tommasoni di Terni, di aver barato. Hanno scommesso una bella somma e dalle mani si passa alle armi. Tommasoni è trafitto a morte, il Merisi solo ferito.
Sugli “Avvisi” di Roma Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, è condannato a morte.
La latitanza
La sua avventura romana è giunta al termine: ormai trentacinquenne inizia la sua latitanza. È stanco e povero, ma il suo estro creativo è al massimo splendore e dipingerà e dipingerà ancora a ritmi sovraumani fino alla morte, rimanendo sempre fedele a sé stesso e alla sua pittura.
La prima tappa della sua latitanza sarà una città pervasa da grandi fermenti e innovazioni artistiche: Napoli. Qui realizzerà una delle sue opere più celebri, le “Sette opere di misericordia” (1607): miseria e nobiltà sono uniti in unica idea dal sapore del tutto innovativo, e dove per la prima volta tutti e sette gli atti di virtù tratti dal Vangelo di Matteo sono rappresentati insieme. Quest’opera ispirerà generazioni di pittori da Rembrandt a Velazquez.
La permanenza a Malta
Improvvisamente, Caravaggio lascia Napoli per Malta. Le ragioni non sono ancora certe: forse era stato avvertito dell’arrivo della polizia papale, oppure sperava di ottenere la Croce di Cavaliere di Grazia dell’Ordine di Malta, che gli avrebbe dato il diritto di andare in giro armato di spada.
Arrivato sull’isola riesce a entrare nelle grazie del Gran Maestro dell’Ordine per il quale realizza la “Decollazione di San Giovanni Battista” (1608). È uno dei massimi capolavori del pittore, l’opera che forse sintetizza tutta la sua carriera e i ricordi personali e forse per questo è l’unica che porta la sua firma, visibile nel sangue che sgorga dal santo decapitato, nel quale è probabile il pittore si sia immedesimato.
Tuttavia, la situazione precipita nuovamente: si dice abbia cercato di sedurre un giovane dell’Ordine di Malta; o, forse era arrivata la messa al bando dalla capitale, della quale il pittore non aveva fatto voce al suo arrivo sull’isola; oppure, le sue opere scabrose e oscene hanno nuovamente suscitato scalpore.
Fatto sta che viene radiato dall’Ordine di Malta, designato come “putridum et foetidum” e nuovamente incarcerato.
La clandestinità siciliana
Davide con la testa di Golia
Riesce nuovamente a evadere e scappa in Sicilia. Si nasconde prima a Siracusa, poi a Messina. Realizza il “Seppellimento di Santa Lucia” (1608) e la “Resurrezione di Lazzaro” (1609), tele cupe, eteree, ma anche calde e soffocanti e soprattutto nuove. I suoi nuovi lavori vengono ovviamente accolti male.
Decise di tornare a Napoli, dove subisce un tentato omicidio. Una vendetta? Emissari dell’Ordine di Malta? Caravaggio se la cava per miracolo e la ferita riportata sulla fronte testimoniata nel “Davide con la testa di Golia” (1610) ne è la prova. Questo è il suo ultimo autoritratto e il volto di Golia racconta tutti i tormenti passati negli ultimi anni.
È una delle opere che porta con sé sulla via di Roma, è l’opera che vuole portare al papa per ottenerne la grazia, come per offrire la sua testa in cambio del perdono.
La morte e l’esaltazione
Sceglie la via del mare e sbarca a Porto Sant’Ercole. È debole e febbricitante, viene arrestato e rilasciato, i suoi beni requisiti. Non si sa e forse non si saprà mai se morì vittima di alcuni vagabondi o per stenti, fatto sta che viene ritrovato il suo cadavere sulla spiaggia dalla quale si vede Roma.
Paolo V su pressione degli amici del pittore, mise infine il suo sigillo sulla sentenza di grazia.
La sua arte e il suo nome sono stati dimenticati e occultati per secoli, la sua vita stravolta dagli eccessi e dai delitti è stata condannata dall’ipocrisia della società in cui ha vissuto.
Nel 1911 Roberto Longhi, tra i più celebri storici e critici d’arte italiana, apre con la sua tesi di laurea la strada ad una nuova lettura delle opere di Caravaggio: il pittore viene riscoperto, la sua arte compresa, la sua grandezza riconosciuta.
Oggi possiamo riammirare tutta la tenebra, l’innovazione e la grandezza che Caravaggio portò in pittura.
Foto di pubblico dominio. Fonte: Wikimedia.org
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