Con il secondo articolo della legge 1° dicembre 2023, n. 172 l’Italia ha vietato «agli operatori del settore alimentare e agli operatori del settore dei mangimi impiegare nella preparazione di alimenti, bevande e mangimi, vendere, detenere per vendere, importare, produrre per esportare, somministrare o distribuire per il consumo alimentare ovvero promuovere ai suddetti fini alimenti o mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti derivanti da animali vertebrati». In parole semplici, ma improprie, la cosiddetta «carne sintetica».
La norma, adottata in forza «principio di precauzione» contenuto nel Reg. CE n. 178/2002, che consente agli Stati dell’Unione di adottare misure provvisorie di gestione del rischio per la salute nei casi in cui vi sia la possibilità di eventi dannosi, ma permanga una situazione d’incertezza sul piano scientifico, lascia quindi aperto, fermi i divieti, il dibattito sui rischi, sui vantaggi e sulla necessità della «carne sintetica».
Cos’è la carne «coltivata»?
Secondo la comunità scientifica la «carne sintetica», più propriamente «carne coltivata», è un prodotto di laboratorio ottenuto attraverso la coltivazione di cellule animali prelevate tramite biopsia e fatte crescere in una soluzione ricca di nutrienti eventualmente utilizzando un bioreattore: un apparecchio acceleratore della crescita cellulare in condizioni ottimali.
Alcuni ricercatori, ed in particolare la Fondazione Veronesi, si oppongono all’uso del termine «sintetico» obiettando che l’intervento umano è limitato a favorire la crescita delle cellule e allo stesso modo negano la presenza di rischi per la salute, sostenendo al contrario che la carne coltivata sarebbe immune da ogni contaminazione o possibilità di malattia ed evidenziando il minore impatto ambientale della carne coltivata rispetto a quella degli animali allevati i quali, secondo le loro valutazioni, sarebbero tra i maggiori responsabili della crisi climatica sia per le emissioni, sia per il consumo del suolo e dell’acqua.
Le «zone d’ombra» del processo di coltivazione della carne
Se dell’allevamento animale, che la specie umana ha iniziato a praticare circa diecimila anni fa, sappiamo praticamente tutto, sulla carne coltivata persistono, anche in ragione della riservatezza dei processi industriali, alcune «zone d’ombra» che da un lato contribuiscono alla diffidenza dei consumatori nei confronti di questo potenziale (ma attualmente vietato in Italia) «novel food», dall’altro non consentono di apprezzare in modo realmente misurabile il vantato ridotto impatto ambientale che è uno dei punti di forza dei sostenitori della carne coltivata.
C’è una storiellina che circola da qualche tempo che rende l’idea di questa contrapposizione.
Un giorno un allevatore ricevette la visita degli ispettori sanitari i quali gli chiesero cosa desse da mangiare ai propri animali e, insoddisfatti della risposta, lo multarono pesantemente. La scena si ripeté con altri allevatori sino a che l’ultimo di loro rispose: «non so cosa mangiano, io gli do i soldi e loro si comprano quello che gli pare».
Al di là di ogni battuta è vero che mentre alcuni modelli di allevamento cosiddetto semibrado prevedono una sorta di autogestione alimentare degli animali allevati, che vengono supportati dal punto di vista alimentare solo nei periodi di difficoltà, la carne coltivata dev’essere integralmente alimentata in laboratorio, ma non è ancora chiaro chi, dove e come dovrebbe produrre le sostanze nutritive e quali impatti ciò comporti in termini di emissioni (si pensi solo agli apparati) e di consumo del suolo sia per l’estensione delle «fabbriche di carne» (ci si perdoni il termine) sia per quella dei centri che dovrebbero produrre i necessari nutrienti e gli altri prodotti occorrenti allo sviluppo, alla conservazione ed al mantenimento delle condizioni di sicurezza dei prodotti. Questo anche considerando che mentre lo sviluppo dell’animale gode del suo sistema immunitario, la carne coltivata dovrebbe essere costantemente e chimicamente protetta dagli agenti patogeni.
Fino a quando questi dati non verranno resi noti non sarà possibile fare una valutazione comparativa obiettiva d’impatto ambientale della carne coltivata.
Allevamenti e ambiente
È difficilmente controvertibile che gli allevamenti intensivi abbiano un significativo impatto negativo sull’ambiente, oltre che presentare problemi etici non indifferenti. La millenaria storia della domesticazione animale, tuttavia, dimostra che questi fenomeni di squilibrio ambientale sono dovuti in gran parte all’industrializzazione della produzione della carne iniziata alla fine del XIX secolo.
In altri modelli di sviluppo zootecnico e agricolo, arcaici o contemporanei come quello fornito dalla «permacultura» (su cui ci intratterremo in un’altra occasione) gli allevamenti, dimensionati in modo ottimale, sono perfettamente inseriti in un processo produttivo che attenua gli effetti negativi esaltando quelli positivi.
Si pensi solo alla produzione di ammendanti naturali, alla lotta ai parassiti, al mantenimento delle condizioni di fertilità dei terreni, alla prevenzione degli incendi.
Il ruolo responsabile dei cuochi
Se in proiezione il fabbisogno crescente di carne rischia di diventare realmente insostenibile per il Pianeta questo è dovuto anche alla cucina.
A partire dagli anni del boom economico infatti non solo la carne è entrata in misura preponderante nella dieta occidentale, ma ciò è avvenuto riducendo sensibilmente i tagli richiesti che per i bovini hanno finito col privilegiare la famosa «fettina», le bistecche, il girello, il filetto, mentre per il pollame ci si limita spesso al solo petto e del maiale, di cui un tempo, come ha raccontato Maria Molon, «se magnaa tutto, se buttaa solo unge e pelo!», si prediligono solo le parti più magre. Degli ovini invece si consumano, soprattutto in alcuni periodi dell’anno, solo gli animali più giovani.
Mentre allora gli Chef più acclamati si dividono sulla bontà o meno della carne coltivata, il variegato mondo della cucina dovrebbe piuttosto assumersi le proprie responsabilità indicando un percorso sostenibile di consumo della carne che accresca l’uso dei tagli meno nobili e aumenti l’età degli animali sacrificati anche a costo di recuperare un’attività umana oggi decisamente in declino: la masticazione.
Abbiamo realmente bisogno della carne coltivata?
A conti fatti l’invocazione del nostro legislatore del «principio di precauzione» per introdurre il divieto della carne coltivata si è rivelata una scelta sensata. Allo stato dell’arte, infatti, almeno al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori, mancano troppi dati per considerare realmente vantaggiosa ed immune da rischi per la salute e l’ambiente la scelta di coltivazione della carne. Non sappiamo quale reale impatto avrebbe una produzione su larga scala che soddisfacesse l’attuale fabbisogno di carne e quello della sua prevedibile proiezione, ma è pur vero che al contempo non sappiamo se saremo in grado in futuro di ridurre l’impatto ambientale degli allevamenti con scelte sostenibili, aumentare la parte edibile e l’età degli animali sacrificati riducendo il numero di quelli allevati e sacrificati, riportare in equilibrio il sistema.
Siamo quindi di fronte ad un’equazione con troppe incognite che induce alla cautela.
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