In Italia ogni anno vengono abbandonati un numero imprecisato di neonati. Alcuni dati parlano di centinaia di bambini, altri di migliaia. Purtroppo le cifre risultano essere approssimative in quanto quelle ufficiali sono riconducibili esclusivamente ai piccoli nati e abbandonati in ospedale dalle madri. Dunque, impossibile calcolare anche gli “invisibili”, cioè quanti partoriti e abbandonati fuori dalle strutture ospedaliere.
Numerosi sono poi i bambini strappati, per varie ragioni, al nucleo familiare. In entrambi i casi, i minori vengono ospitati all’interno delle Case Famiglia.
Abbandoni del passato
In passato, due codici penali in vigore nell’Italia post-unitaria (quello sardo e quello toscano) punivano il reato di “abbandono d’infante”. La pena era più severa nel caso in cui il bambino fosse morto. Ciononostante, in un periodo in cui le bocche da sfamare erano tante, si continuava a ricorrere a tale pratica. Anche se esisteva un’alternativa meno drastica all’abbandono.
Già in epoca medievale, infatti, le donne potevano affidare il nascituro a dei privati che si occupavano di accogliere e allevare i piccolo. Nello specifico, i bambini venivano lasciati nella cosiddetta “Ruota degli Esposti”, un congegno rotante che mediante uno sportellino consentiva di far passare il “fagottino” dall’esterno all’interno della struttura. Accanto al marchingegno era collocata una campanella da suonare per avvertire gli operatori della presenza di un nuovo arrivato.
Nel ‘700, una nuova regola stabilì che chi voleva sbarazzarsi del bimbo avrebbe dovuto pagare un contributo da versare regolarmente.
Nella Capitale, la Ruota degli Esposti si trovava di fronte all’Ospedale di Santo Spirito in Saxia, vicino Piazza San Pietro.
Ma torniamo ai nostri giorni.
Una “Culla per la vita”
Oggi, per arginare il triste fenomeno, la legge italiana consente alle donne di partorire in anonimato. Se il parto avviene in ospedale, la gestante può lasciarlo nella struttura in cui è nato (DPR 396/2000, art. 30, comma 2) affinché sia assicurata l’assistenza e anche la sua tutela giuridica.
In questo caso, nell’atto di nascita del bambino viene riportata la dicitura “nato da donna che non consente di essere nominata“.
Se la donna sceglie di partorire in casa, può lasciare il neonato al sicuro in speciali culle poste accanto agli ospedali, parrocchie, conventi e orfanotrofi. Insomma, la versione moderna della “Ruota degli Esposti”.
Casa Famiglia: un raccordo per minori
Dopo le prime cure in ospedale, i bambini vengono quindi trasferiti all’interno di “presidi residenziali socio-assistenziali” temporanei, noti come “Case Famiglia”, dove rimangono in attesa di adozione fino al compimento dei 18 anni. Poi, l’incubo! Appena diventano maggiorenni, i ragazzi non hanno più la sicurezza di un tetto e di un piatto a tavola. Perdono tutto. Possono tuttavia rivolgersi alle Comunità alloggio, strutture in grado di ospitarli fino a quando non imparano a divenire autonomi.
Fortunatamente, l’Italia ha costituito un Fondo per garantire ai giovani la possibilità di sperimentare dei percorsi autonomi per non ricadere nel circuito dell’assistenzialismo.
Oltre ai neonati abbandonati, all’interno delle strutture vivono anche i giovani provenienti da famiglie “disfunzionali” in difficoltà, i cui genitori hanno problemi di alcool, droga, carcere, abusi sessuali e via discorrendo.
Ad essi si aggiunge un numero sempre più crescente di “minori stranieri non accompagnati”, che secondo le statistiche, hanno una minore probabilità di trovare una nuova famiglia.
Alternative alle Case famiglia
Oltre alle case famiglie, esistono:
- Case madri-figli che ospitano anche le mamme in difficoltà;
- Comunità alloggio, di cui abbiamo appena parlato;
- Case Multiutenza dove vivono bambini con fragilità, disabilità e patologie di varia natura;
- Servizi di pronta accoglienza, allo scopo di tutelare i minori in stato di abbandono materiale;
- Comunità educative, caratterizzate dalla presenza di educatori professionali che accompagnano i minori pianificando il loro percorso educativo.
Doppio abbandono
Nel caso in cui un’adozione fallisca, un bambino può essere abbandonato nuovamente. I dati parlano di almeno cento casi all’anno. Per loro il percorso è assolutamente in salita.
Cosa succede all’interno delle comunità
Nell’interesse dei minori, gli educatori cercano di lavorare in sinergia con le famiglie d’origine a meno che non sussistano dei limiti particolari fissati dal Tribunale di riferimento.
Quanto alla vita all’interno delle strutture, è di difficile comprensione perché i pareri sono discordanti. Ci sono strutture paradisiache come quelle descritte nel film “Solo cose belle” di Kristian Gianfreda, regista che ha vissuto per quattro anni, come responsabile, in una casa di accoglienza per senzatetto della Comunità Papa Giovanni XXIII, ed altre dove, invece, si segnalano violenze e mancanza di affettività da parte degli operatori.
Tra le eccellenze, vogliamo citare l’Oasi Celestina Donati, di Roma, a nostro avviso una struttura modello. Ne conosciamo la gestione, delle bravissime, attive e competenti Suore Calasanziane e la preziosa operatività di persone che offrono il loro tempo come volontarie e come insegnanti della scuola d’infanzia e primaria inclusa nella struttura.
Come in tutte le cose, anche in questo ambito sono sempre e solo le persone a fare la differenza.
Foto di DanaTentis da Pixabay
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