Chi è donna?

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Con l’avvicinarsi della festività dell’8 marzo, con la quale si vanno a celebrare le donne di tutto il mondo, potrebbe essere utile fermarci un secondo per chiederci: ma esattamente, cosa definisce l’essere donna? Forse eventi quali le mestruazioni e il parto? Il desiderio di diventare madre e di formare una famiglia? Il trovarsi a proprio agio con addosso un vestito? O nulla di tutto questo? 

Per affrontare questa domanda cerchiamo di esplorare la realtà, che come al solito ci sorprende, attraverso le informazioni alla portata di tutti. 

Da un punto di vista biologico, una donna è un individuo umano di sesso femminile, che possiede due cromosomi X, uno ricevuto dalla madre, l’altro dal padre. Il cromosoma, che abbiamo già incontrato nel corso delle nostre lezioni di biochimica, è composto da un filamento molto lungo di DNA e contiene molti geni (da centinaia a migliaia). La coppia di cromosomi sessuali determina se un feto sarà maschio o femmina: un individuo umano di sesso maschile avrà un solo cromosoma X, proveniente dalla madre, accompagnato da un cromosoma Y, ricevuto dal padre. Gli esseri umani, come molte altre specie animali, presentano il cosiddetto dimorfismo sessuale, cioè una differenza morfologica fra individui appartenenti alla medesima specie ma di sesso differente. Le differenze stanno nei caratteri sessuali che gli individui presentano, e ciò che divide più marcatamente i due sessi biologici è la presenza, negli individui di sesso femminile, dei caratteri sessuali che permettano la gravidanza e il parto nel periodo che va dalla pubertà fino alla menopausa.

Ma è davvero tutto così semplice?

In realtà, no. Tanto per cominciare, alcune persone possiedono corredi cromosomici diversi dai semplici XX o XY. Esistono molte altre combinazioni possibili: alcune persone possiedono un corredo XXX, altre XXY e altre ancora XYY, ma sono possibili anche XXXX, XXXY, XXYY e così via. Una persona ogni 1666 non è né XX né XY. 

Sia per fattori legati a questo ventaglio di corredi cromosomici, sia per ragioni ormonali, non è sempre così facile incasellare gli esseri umani in queste categorie di “maschio” e “femmina”. Tornando sulla questione dei caratteri sessuali, che dovrebbero esplicitare la differenza fra i due sessi, ci sono persone che non hanno tratti marcatamente “femminili” o “maschili”, così come ci sono persone che si trovano a possedere entrambi, sia per quanto riguarda i caratteri fisici come il seno o la barba, sia a livello dell’apparato riproduttivo (è il caso delle persone intersessuali).

Se quindi la biologia non può dirci con certezza quali siano i limiti dell’essere donna, dove altro potremmo andare a guardare? 

“Maschile” e “femminile” come categorie non entrano in gioco solo quando parliamo di sesso biologico, ma anche quando parliamo di genere. Il genere descrive tutte quelle caratteristiche che si ascrivono ai due sessi biologici, e che in gran parte sono costruzioni sociali. Diceva bene Simone de Beauvoir quando affermava che «donne non si nasce, donne si diventa», riassumendo efficacemente come le caratteristiche legate al genere siano decise da processi sociali. Per fare un esempio su un dettaglio quasi triviale, l’associazione fra la femminilità e il colore rosa, che ci potrebbe apparire come una realtà inconfutabile e immutabile nel tempo, è nata solo negli anni ’50: prima di allora il rosa era considerato un colore spiccatamente maschile. Allo stesso modo, la maggior parte (se non tutte) le caratteristiche che accompagnano il genere femminile, dalle attitudini riguardo alle relazioni fino al modo di vestirsi e di presentarsi, sono in realtà solo arbitrariamente associate a questo genere, e pertanto accessibili anche al di fuori di esso. Il sessuologo John Money fu uno dei primi a utilizzare il termine “identità di genere” per indicare la percezione dell’appartenenza che una persona ha al mondo maschile o femminile, in un modo che non ha a che fare con il sesso biologico della persona in questione. Prima del suo lavoro, il termine era usato principalmente per le categorie grammaticali, mentre oggi l’identità di genere viene rigorosamente rispettata in alcuni contesti, come nei documenti scritti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). 

È importante tener presente che l’identità di genere non è la stessa cosa dell’orientamento sessuale. Quale sia/siano i sessi verso il quale un individuo prova attrazione non ha a che vedere con il modo in cui questo individuo si rapporta poi al proprio genere. La confusione nasce sia dal fatto che alcune delle terminologie usate per descrivere l’identità di genere possono sovrapporsi a quelle usate per parlare di orientamento sessuale (per esempio “queer” è un termine ombrello che raccoglie sia chi non si identifica come eterosessuale sia chi non si identifica come cisgender, parola che spiegheremo fra un attimo), sia a causa degli stereotipi legati ai generi di cui abbiamo parlato sopra, che connettono l’attrazione a un certo sesso con l’appartenenza al genere del sesso opposto. Se si ritiene che uno dei tasselli del genere femminile sia l’attrazione verso il sesso maschile, si arriverà erroneamente a pensare che, per esempio, una donna lesbica debba “sentirsi uomo”, quando in realtà non c’è un collegamento fra le due cose. 

Torniamo alla questione dell’identità di genere. Una persona che si identifica con lo stesso genere di nascita è detta cisgender, mentre chi non si identifica con il genere di nascita è definito transgender. Essere transgender tuttavia non significa necessariamente sentire appartenenza al genere del sesso biologico opposto: per alcune persone è lo stesso binarismo maschile/femminile a essere troppo stretto. Esistono quindi anche possibili identità di genere non binarie, che vanno al di là della scelta fra il maschile e il femminile: no gender, genderfluid, genderqueer e pandenger sono alcune di queste possibilità. Anche nel caso delle persone transgender che si identifichino con il genere maschile o con quello femminile, ci sono diversi modi in cui questa identità si può manifestare: ci sono persone che decidono di intraprendere un percorso di medicalizzazione e di sottoporsi a terapie ormonali o chirurgiche per modificare il proprio aspetto fisico, e ci sono quelle che preferiscono non farlo e alterano solo il proprio nome e il proprio modo di presentarsi. 

Anche rivolgersi al genere quindi non dà una risposta esaustiva su quali siano i confini dell’essere donna. Essere “donna” è qualcosa di complicato, reso ancora più complesso dalle diversità in cui questa realtà si dà nelle diverse culture e nel tempo. Per esempio, nel periodo della segregazione razziale in America le porte segregate dei bagni pubblici contrassegnate dalle etichette Uomini, Donne e Colore avevano sottolineato come il riconoscimento legale di un binarismo di genere fosse un privilegio dei bianchi. Allora cosa possiamo concludere?

Forse, quello che dobbiamo fare è riconoscere tutti i diversi modi per essere donna: 

  • sesso biologico femminile (cromosoma XX, morfologia, caratteri sessuali, tono della voce etc.);
  • aspetti fenomenologici (ciclo mestruale, esperienza sessuale femminile, parto, allattamento etc.);
  • ruoli sociali (svolgere certe mansioni, essere sessualmente discriminate o oppresse, vestire in un certo modo etc.);
  • attribuzioni di genere (definire qualcuno o autodefinirsi donna).

Riprendendo nuovamente la citazione di Simone de Beauvoir, dire che «donne non si nasce, donne si diventa» può significare anche che le caratteristiche che abbiamo alla nascita possono essere elaborate dai processi sociali che trasformano ognuno di noi nelle persone che diventiamo, e non devono determinare il modo in cui viviamo. Siamo noi che decidiamo collettivamente cosa significhi “donna”, e se vogliamo farlo in maniera corretta dobbiamo ascoltare le voci e le esperienze di tutti coloro che vivono come donne, perché desiderano esserlo. 

Foto di Engin Akyurt da Pixabay

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