Qualche giorno fa si è svolta l’annuale cerimonia degli Oscar 2018, e più di altri anni, c’è stato davvero tanto e tanto materiale valido fra cui scegliere per l’Accademy.
Fra i trionfanti di quest’edizione troviamo un film, vero, arrabbiato, moderno con un pizzico di western sparso come pepe sulla pasta, stiam parlando di Tre manifesti a Ebbing, Missouri scritto e diretto da Martin McDonagh che ha ricevuto la candidatura come miglior film e migliore sceneggiatura originale, “cedendo” la prima a Guillermo del Toro per La forma dell’acqua e la seconda a Jordan Peele per Scappa – Get out.
In un presente che ha un qualcosa degli anni ’90 con sé e ci ritroviamo catapultati in una cittadina piccola a chiacchierosa, dove le istituzioni sono rispettate e temute ma non da tutti e non per molto. C’è un’eroina a salvarci dalla noia generale e dalle convenzioni alla quale tutti si adeguano: una splendida Frances McDormand (ruolo che le è valso la statuetta per la seconda volta, dopo il celebre Fargo del 1996) che diventa una mamma arrabbiata e assetata di verità. Una donna fragile ma fortissima, determinata a non essere trattata con la sufficienza che tutti le riservano, come se fosse un crimine aver perso qualcuno tramite esso stesso, come se ci si dovesse vergognare nel domandare qualcosa di lecito.
No, lei non ci sta e se ne frega, di tutti, di chiunque.
La amiamo subito per la sua schiettezza che imbarazza tremendamente i ben pensanti e mal facenti, la amiamo perché è così attuale nel suo ruolo e soprattutto perché immediatamente capiamo che lei non ha altra scelta, deve dare un senso al suo dolore. Come se ce ne fosse uno.
Nell’anno degli scandali sessuali e dal polverone generatosi a ruota, un film come questo è meraviglioso perché spiega com’è il dopo. Quando la follia arriva alla morte e non si vede la classica scena dell’omicidio che ti fa rabbrividire. È un film su quello che succede dopo, è quello che succede a chi resta e deve fare i conti con un qualcosa che è semplicemente assurdo.
Un cast perfetto ha aiutato la protagonista ad emergere con un Woody Harrelson (Assassini nati – Natural Born Killers, True detective) oltremodo fantastico e un Sam Rockwell (Il miglio verde, Confessioni di una mente pericolosa) che ha meritatamente conquistato l’ambita statuetta interpretando un poliziotto razzista e violento, poco ligio al dovere e pure mammone, che però subisce una trasformazione intelligente.
Divertente, irriverente e coraggioso, che forse è il sentimento più importante. Il coraggio di andare avanti anche quando tutte le nostre certezze crollano, l’incredibile capacità che ha la mente di non affogare nel dolore più nero per la morte di una persona cara, ma di scalarlo come una montagna altissima e angusta.
Ne “La fine del mondo e il paese delle meraviglie” Murakami scrive che “la tristezza troppo profonda non può prendere la forma delle lacrime” e allora sarà qualcos’altro: vendetta, ribellione, rabbia e tutto quello che volete purchè restiate a galla.
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