“Per i suoi sforzi per combattere la fame, per il suo contributo al miglioramento delle condizioni per la pace in aree colpite da conflitti e per il suo agire come forza trainante per evitare l’uso della fame come arma di guerra e di conflitto.”
Questa è stata la motivazione da parte del Comitato norvegese per l’assegnazione del Nobel della pace al World Food Programme (WFP), la più grande organizzazione umanitaria che lavora per sconfiggere la fame nel mondo. È infatti questa agenzia delle Nazioni Unite con sede a Roma, che si occupa fin da quando è stata fondata, nel 1961, di fornire assistenza alimentare nelle emergenze e di lavorare con le comunità per migliorarne la nutrizione.
Obiettivo 2: sconfiggere la fame
Proprio nel 2015, la comunità mondiale ha adottato i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile per migliorare la vita delle persone, da raggiungere entro il 2030. Di questi obiettivi, il numero 2, definito “Fame Zero” – l’obiettivo 1 consiste nel sconfiggere la povertà – rappresenta l’impegno pratico di mettere fine alla fame, raggiungendo una sicurezza alimentare, migliorando la nutrizione e promuovendo l’agricoltura sostenibile. In termini storici il mondo ha fatto grandi progressi nella riduzione della fame. Rispetto al 1990-92 sono 300 milioni le persone che non soffrono più di malnutrizione, nonostante la popolazione mondiale sia aumentata di 1,9 miliardi. Solo nel 2019 lo stesso WFP ha fornito cibo e assistenza a quasi 100 milioni di persone in 88 Paesi. Tuttavia secondo i loro stessi dati: 690 milioni di persone – una su nove – vanno ancora a letto a stomaco vuoto. Ciò vale a dire che una persona su tre, soffre di qualche forma di malnutrizione. Inoltre negli ultimi mesi, il numero di persone che soffrono di fame acuta è cresciuto non solo per gli effetti causati dalla pandemia globale del coronavirus, ma anche per causa dei conflitti in varie parti del mondo.
Fame – guerra: una ruota da fermare
È questo legame bilaterale ad aver fatto valere il premio per la pace al Programma Alimentare Mondiale. Il circolo vizioso contro cui si batte il WFP e tante altre organizzazioni è chiaro. Le guerre distruggono i mercati e i mezzi di sostentamento creando forti instabilità, con l’effetto di spostamenti massicci di popolazione che abbandonano campi, coltivazioni, attività agricole, per sfuggire alle violenze. Di conseguenza l’intero settore primario – che quasi sempre corrisponde all’unico settore trainante nei paesi attualmente con maggiori conflitti – viene minato. Ciò comporta un’elevata insicurezza alimentare: i mercati non vengono più riforniti di cibo, le forniture alimentari si dimezzano e le persone che dipendono da questi sostegni perdono l’accesso al cibo. Quest’ultima condizione porta a sua volta alla competizione per le risorse naturali; un vuoto d’offerta che viene spesso colmato attraverso conflitti oggi ancora accesi.
Sono poi gli scontri a completare questa ruota, aumentando la povertà, che rende precarie le condizioni sanitarie, così da far insorgere malattie spesso con un alto tasso di mortalità, poiché un ulteriore effetto della malnutrizione è l’abbassamento delle difese immunitarie.
Di fatto nelle guerre le colture vengono in gran parte abbandonate, i periodi di semina e raccolta saltano, la logistica dei trasporti e approvvigionamenti viene ostacolata, quindi l’offerta di mercato crolla. L’effetto economico si manifesta con un netto aumento dei prezzi del cibo e delle materie prime, mentre i consumi diminuiscono destabilizzando l’intera economia e politica locale.
Una dimostrazione pratica riportata da Azione contro la fame può essere osservata nella fascia dell’Africa subsahariana dove diversi fattori come l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, la siccità, la competizione per i pascoli sempre più asciutti hanno generato tensioni tra le popolazioni pastorali, fino a sfociare in veri e propri conflitti spesso finanziati da potenze rivali.
Un aspetto positivo a conferma di questo cerchio può invece essere visto nel report di monitoraggio della sicurezza alimentare, redatto dalla FAO e WFP. Esso infatti indica – in riferimento all’anno 2018/2019- come alcuni dei paesi più instabili del mondo (Somalia, Siria e bacino del Ciad) abbiano presentato alcuni miglioramenti in termini di scontri in linea con il miglioramento della sicurezza alimentare. Anche se i dati generali riportati sempre da Azione contro la fame, rimangono allarmanti:
- 6 persone su 10 che soffrono la fame vivono in un Paese in conflitto.
- 122 dei 151 milioni di bambini colpiti da malnutrizione cronica vivono in un Paese in conflitto.
- In 24 paesi su 46 con conflitti attivi, la prevalenza di malnutrizione acuta è superiore al 30%.
- Il 77% dei conflitti ha all’origine l’insicurezza alimentare della popolazione.
- Nel 2017 è stato superato il record di sfollati dalla seconda guerra mondiale, con 66 milioni di persone. Più della metà sono sfollati a causa della violenza, una cifra che si è raddoppiata tra il 2007 e il 2015. Questo ha causato il collasso di gran parte settore primario dei paese colpiti.
Fame come arma
È la storia stessa a insegnare che una delle armi più potenti della guerra è la fame. Ma non è necessario ripercorrere tutti gli assedi e rivolte del passato, basti pensare agli eventi più recenti di assedi sistematici di civili, degli attacchi alle infrastrutture di base per l’acqua e per il sostentamento, del blocco degli aiuti umanitari. Sono azioni in aumento, in conflitti sempre più spesso combattuti da gruppi armati con poche risorse proprie militari, che trovano quindi nella fame un’arma molto economica. Ed è stato negli ultimi anni che il consiglio di sicurezza dell’ONU ha riconosciuto esplicitamente il legame tra conflitto e fame, adottando la risoluzione 2417. Una condanna che invita tutte le parti in conflitto armato a ridurre al minimo l’impatto delle azioni militari sulla produzione e distribuzione di cibo, consentendo l’accesso umanitario in modo sicuro e tempestivo ai civili che hanno bisogno di cibo salva vita, assistenza nutrizionale e medica.
Il Nobel
In risposta alla fame come arma c’è stato questo Nobel. Un Nobel per la pace assegnato nell’anno difficile del Covid, che ha puntato i riflettori sugli obiettivi e azioni del WFP. Obiettivi che nell’ultimo periodo certe situazioni di politica internazionale hanno rallentato.
“Oggi le istituzioni internazionali come il Wfp – che si sostengono tramite donazioni degli stati e dei privati- sono in affanno a causa di populismi e nazionalismi che screditano le agenzie di cooperazione – ha detto la presidente del Comitato per il Nobel Berit Reiss-Andersen (foto sopra) – È difficile per loro ricevere il supporto finanziario. Adesso, più di 20 anni fa.”
L’assegnazione del nobel gioca quindi un ruolo di svolta per le comunità internazionali. Come ha affermato il portavoce del Programma Alimentare Mondiale:
“Questo – in riferimento al premio ottenuto- ricorda in maniera potente al mondo che pace e zero fame vanno di pari passo”
Tale onorificenza permette in primis di riflettere come la fame possa portare alla guerra e non solo il contrario, e al tempo stesso illumina la strada verso una soluzione concreta. È con progetti di supporto e salvataggio di breve termine che creano una sicurezza alimentare, per poi promuovere piani agroalimentari di lungo periodo, con finanziamenti mirati a microimprese locali a favore di una agricoltura sostenibile, che la ruota viene fermata. L’organizzazione ha combattuto e combatte ogni giorno sul campo per questa missione. Un modo per sconfiggere la fame vincendo la guerra. Questo è il merito per la pace al World Food Program.
Scrivi