Cosa guida le nostre scelte alimentari?

cosa guida

Vi siete mai chiesti come mai sul Pianeta vi siano molti più uomini (e topi) che koala, i simpatici marsupiali australiani? Secondo Michael Pollan («Il dilemma dell’onnivoro») tutto dipenderebbe dal fatto che il koala è notoriamente monofago: si ciba esclusivamente di foglie di eucalipto, mentre la specie umana si è evoluta, al pari dei topi, in senso onnivoro.

La cosa singolare è che il koala non è nato monofago: resti fossili attestano che i suoi antenati di cinquantamila anni fa avevano una dieta più variata e popolavano le foreste tropicali che, con il progressivo abbassamento della temperatura, si convertirono in foreste di eucalipti condizionando l’alimentazione del koala e determinando anche la riduzione e la specializzazione del suo habitat.

I nostri antenati Neanderthal erano già onnivori ed il loro cervello, di dimensioni addirittura superiori rispetto a quelle dei Sapiens e con un apparato sensoriale molto sviluppato, era in gran parte indirizzato alla ricerca e selezione del cibo. Nella competizione evolutiva con i Sapiens soccombettero per la loro minore abilità nella cottura, che dava ai Sapiens un notevole vantaggio visto che, come noto, la cottura rende commestibili moltissimi alimenti che crudi sarebbero tossici o indigesti.
Le più antiche preferenze alimentari erano allora dettate esclusivamente dalla commestibilità o tossicità di ciò che poteva apparire come cibo.

Alimentazione e cucina

Anche se tendiamo a considerarli sinonimi, alimentazione e cucina indicano due fenomeni relativamente differenti: la prima ha natura socio-economica, strettamente legata alla ricerca, alla produzione e alla consumazione del cibo; la seconda culturale e questo spiega come mai a parità di alimenti persone di cultura diversa li cucinano in modo diverso.

L’alimentazione è condizionata dalla disponibilità del cibo, la cucina dal gusto ed in questo ha ragione Alberto Grandi quando afferma che non bisogna confondere la storia dell’alimentazione con la storia della cucina.

La cucina, ha scritto Gianfranco Marrone nell’introduzione al volume «Buono da pensare», è un «fatto sociale totale che tende a produrre forme di identità e di alterità etniche».

Dal punto di vista antropologico la specie umana ha risolto da alcune migliaia di anni il dilemma dell’onnivoro, nel senso della selezione degli alimenti commestibili. Anche gli alimenti cosiddetti «nuovi», perché provenienti da altre culture culinarie talvolta lontanissime come sono per noi quella asiatica e quella americana, sono arrivati a noi dopo che qualcun altro li aveva testati come commestibili.

Lo stesso accade oggi per il «novel food», il cibo costruito in laboratorio e soggetto a norme rigidissime, e per l’alimurgia, il recupero della raccolta dei vegetali spontanei, che si basa su rigorose prove scientifiche e chimiche che confermano una sapienza ancestrale.

Meglio un uovo oggi che una gallina domani

Ora che tendiamo ad associare la cucina alla creatività non possiamo dimenticarci che per almeno un paio di millenni (circoscrivendo l’ambito all’Occidente) per la stragrande maggioranza della popolazione cucinare era solo combinare assieme i pochi ingredienti disponibili.

Le cosiddette tradizioni culinarie possono essere ricondotte quindi più che al gusto alla necessità abbinata alla sensibilità collettiva: i veneti consumavano polenta di mais e non di grano tenero non per scelta, ma per la maggiore resa agricola del mais mentre la carne, che ha fatto irruzione nelle nostre tavole solo nel secondo dopoguerra grazie dalla Rivoluzione verde, non veniva limitata per ragioni etiche, ma perché i bovini erano necessari all’agricoltura; degli ovini e del pollame si consumava solo la carne dei maschi eccedenti che non producono latte o uova, e una famiglia colonica poteva permettersi un solo maiale, sempre che non gli fosse sottratto da un signorotto o da un esercito di passaggio.

Su questa necessità si sono innestati tradizioni culinarie e precetti religiosi e non è un mistero che il loro superamento è stato indotto nel mondo occidentale dalla moltiplicazione del cibo disponibile.

Il condizionamento dei mass media

Il terzo millennio ha visto l’irrompere della gastronomia nei mezzi di comunicazione di massa creando una nuova categoria: l’intrattenimento gastronomico fatto di trasmissioni televisive, di canali web, di influencers.

Quanto incidono questi strumenti sulle scelte alimentari?

I dati diffusi dei media parlano di un 78% di consumatori che consulta regolarmente questi mezzi per orientare le proprie scelte alimentari, di un 62% che se n’è dichiarato influenzato, e di un 45% che ha affermato di aver provato almeno un prodotto nuovo dopo averlo visto sui media.

Secondo il Rapporto Federalimentare – Censis presentato un anno fa, al cospetto del 42,1% del campione che si definisce abitudinario e mangia sempre più o meno lo stesso cibo, solo il 20,5% dello stesso campione si è dichiarato «innovatore», a cui piace sperimentare alimenti, gastronomie, cucine nuove.

Dati solo apparentemente contraddittori perché i primi rivelano la capacità dell’intrattenimento gastronomico di suscitare interesse e curiosità (e ci fanno comprendere le ragioni di questa sua continua corsa all’eccesso) i secondi il comportamento quotidiano.

Siamo in massima parte abitudinari per ragioni affettive, ma fa sorridere la mitizzazione delle nonne in cucina in un’epoca in cui le nonne s’identificano ormai con le protagoniste dell’emancipazione femminile.

E se fosse tutta una questione di DNA?

I nostri anziani, che avevano ben presente la sacralità del cibo, al cospetto di qualcosa che non gli piaceva dicevano: non lo gradisco.

Oggi ci sono famiglie in cui, per seguire i gusti e le necessità alimentari dei singoli, si fanno anche più cucine contemporaneamente.

Solo capricci di bambini o adulti-bambini, viziati?

È un dato di fatto che mentre ci sono alimenti universali che piacciono a tutti, come le patatine fritte, altri, come il tartufo, le interiora e i formaggi erborinati dividono tra adoratori e odiatori.

Ci sono persone che avversano la carne ed altre che invece inghiottono faticosamente qualsiasi verdura.

Una risposta a questi comportamenti ed alle ragioni delle allergie e incompatibilità alimentari, la potrebbe dare la genetica: la nutrigenetica studia come il nostro patrimonio genetico influisca sul modo in cui l’organismo reagisce agli alimenti e, in alcuni casi, si esprima col «disgusto» definito dallo psicologo di Harvard, Steven Pinker, «microbiologia intuitiva».

Un approccio che forse rischia di essere autoassolutorio, ma chi può dirlo? Magari a Roma abbiamo un DNA particolarmente predisposto per la carbonara.

Foto di Syahir Hakim da Pixabay

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