Cosa significa essere un vegliardo

vegliardo

Vegliardo è una parola che sconforta. Pure sulla tarda età grandi uomini come Borges e Karl Popper hanno scritto pagine mirabili e consolanti.

Non pretendo di confrontarmi con loro ma aggiungo le mie considerazioni di uomo comune a difesa d’una età bistrattata.

Parlo ovviamente di coloro che hanno la fortuna di conservare integra la capacità cognitiva, scampati all’Alzheimer e agli ictus. Il che è un privilegio raro e forse ingiusto ma, come direbbe Umberto Eco, “è colpa di Dio”, ch’è un modo ironico e geniale di dire che la sorte di ognuno è misteriosa e inspiegabile. Per cui “stiamo contenti al quia”.

Che gli anni siano 80 o 90 non fa differenza, esistono sorprendenti lati positivi pur in mezzo ad acciacchi e limitazioni e voglio smontare una considerazione limitativa o compassionevole dei supervecchi, considerati una sparuta minoranza di sopravvissuti, sperduti nelle nebbie d’una specie di coma mascherato.

Cosa significa dunque essere tanto avanti negli anni?

Significa che le dimenticanze, le momentanee confusioni, le distrazioni, le malinconie, gli smarrimenti, i malumori della mia età non sono altro che il pendant dei furori, delle illusioni, delle esaltazioni, degli abbattimenti, delle follie dell’età più verde ed è inutile che le generazioni si sfidino a chi è più impacciato nel cammino dell’esistenza.

Significa scoprire che la perdita della memoria a breve non è solo una menomazione ma un grande antidoto alla vacuità del presente.

Significa che la conservazione della memoria remota non è soltanto un frugare nella soffitta dei ricordi ma un prezioso diario privato della storia del mondo.

Significa, per molti, aver avuto il buon senso d’aver formato una famiglia che, tra conflitti e delusioni, ha pur sempre costituito l’humus su cui sono fioriti gli affetti, si sono misurate le passioni, si sono confrontati i pensieri e soprattutto sono nati figli e nipoti che ci tengono compagnia ora che gli amici se ne sono andati.

Significa che questi figli e nipoti ci portano a guardare al futuro, una dimensione che altrimenti non ci riguarderebbe più.

Significa guardare al passato senza l’oraziana laus temporis acti ma con il rimorso degli errori commessi e del male arrecato e accettare le proprie sofferenze come una sorta di contrappasso.

Significa capire finalmente, cosa abbia veramente contato nella folla di eventi del proprio passato, chi ci abbia veramente amato, chi abbiamo veramente amato, quali sprazzi di luce ci hanno consentito di vivere e non solo sopravvivere.

Significa capire di quante menzogne ed inganni ci si sia liberati, quanta bellezza e verità siano recuperabili dalla memoria del proprio vissuto a dispetto di tutte le inutili vicende che, come dice Paolo Conte nella sua bella canzone, han “fatto solo volume”.

Significa non condannare più, non odiare più, cercare di comprendere, nei limiti del comprensibile, e per il resto portare solo compassione.

Significa imparare a ridere dei propri limiti, delle proprie stranezze, delle proprie miserie, il che è insieme un conforto ed un riscatto.

Significa godersi l’ultima età come la quiete dopo la tempesta.

Significa attendere la morte come un incontro con Dio, il dio ignoto cui abbiamo, nell’impotente immaginazione, attribuito fattezze   umanoidi, assegnato compiti assurdi, riservato culti ridicoli, chiesto doni e salvezze arbitrari ed egoistici, un dio che forse potrebbe  rivelarsi, in un attimo di atemporale eternità , veramente “ l’amor che move il sole e l’altre stelle”.

Un rimprovero ai colti detrattori della vecchiaia

Ma perché siete così indulgenti e rivalutatori verso le antiche storiche generazioni, perché condannate chi non ha saputo rispettare le credenze dei Maori, i costumi dei Pellerossa, le tecniche ancestrali dei Bantu e dei Watussi, e siete così critici verso noi, custodi e non relitti del passato, perché non sappiamo usare computer e cellulari e diffidiamo dei modernismi estremismi cui non siamo preparati?

Considerataci dei Maya o dei Toltechi che non conoscevano la ruota e pure leggevano i moti celesti.

Non siamo né un ‘etnia né una tribù antropologicamente separate, siamo una categoria in difficoltà come i “diversamente abili”; chiamateci dunque “diversamente civili” e portateci rispetto e attenzione.

E qui chiudo…

e mi dedico alla fine della mia non facile giornata alle fastidiose incombenze dell’anziano:

debbo ricaricare gli apparecchi acustici, pulire i denti con lo scovolino, cercare con l’apparecchio fisso il cellulare scomparso, rinunziare a preparare la cena perché mancano i fiammiferi e le mani che tremano non sanno far funzionare l’accendino. Potrei telefonare a Glovo ma non so dove ho messo gli occhiali.

Mi vesto alla buona (“sembri un barbone” diceva la mia povera moglie) e scendo al ristorante sotto casa. Qui mi affido al cameriere perché scelga lui un menu da borghese medio, e sia così gentile da fare una telefonata a mia figlia (il numero di telefono lo porto sempre nel portafoglio) che venga a prendermi tra mezz’ora perché ho lasciato le chiavi di casa a casa.

Davanti al bicchiere sorrido di me e medito sulla mia fortuna: aver conservato, nella pochezza delle mie residue risorse, affetti e pensieri e con essi la dignità d’essere uomo.

NdR La redazione di Inlibertà ringrazia il proprio decano, Nanni di Giacomo, che, con il suo tratto gentile, elegante ed ironico, ha condiviso con noi e con i nostri lettori questo articolo speciale sui vegliardi e sui suoi, straordinari, 94 anni. Grazie, Nanni, e grazie anche per i rimproveri: cercheremo, pensando alle tue parole, di essere molto più attenti e rispettosi con i “diversamente civili”.

Foto di Sabine van Erp da Pixabay

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