La violenza domestica è ormai parte del quotidiano. E’ nelle nostre case, nelle nostre famiglie, nelle nostre relazioni: è domestica.
Mai come in questi tempi i mezzi di comunicazione ci bombardano di storie ed eventi drammatici, a volte cruenti, che vengono perpetrati all’interno delle mura domestiche, e vedono protagoniste soprattutto le donne, ma anche i figli ed in genere gli altri componenti il nucleo familiare, anche se la violenza in famiglia balza sulle prime pagine dei giornali solo quando sfocia in reati di eccezionale gravità, come l’omicidio.
Ci viene da pensare che il pericolo non è nella notte, non è nella strada, ma nella violenza da parte di mariti, compagni, fidanzati, padri, fratelli: è proprio in casa che avvengono il 90% degli stupri, dei maltrattamenti e delle violenze fisiche e psicologiche. E questi dati sono assolutamente trasversali e non conoscono grandi differenze, in Italia, come nei diversi paesi del mondo.
Il termine “femminicidio”, nato molto di recente ed utilizzato in criminologia da Diana Russel nel 1992, poi ripreso negli appelli internazionali lanciati dalle madri delle ragazze uccise a Ciudad Juarez, è ormai entrato prepotentemente nel linguaggio mediatico e quotidiano ed indica una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna «perché donna», in cui cioè l’uccisione della donna è l’esito di una violenza pregressa subita nell’ambito di una relazione d’intimità.
Per capire a fondo la gravità del problema non possiamo prescindere da una analisi relativa ai dati: per la prima volta un’indagine nazionale ha valutato quanto costa il silenzio sul femminicidio e sulla violenza contro le donne. E il risultato è drammatico: 16,7 miliardi di euro. Praticamente la metà di una finanziaria “pesante”. Per contrastare questo fenomeno, invece, si investe poco: solo 6,3 milioni di euro all’anno.
La conclusione è che nel 2012 una donna ogni 3 giorni è stata uccisa dal proprio partner, e che più di un milione di donne hanno subito almeno una molestia. Nel 2013 sono 128 le vittime. Volendo stimare anche gli atti di violenza si arriva alla cifra stratosferica di 14 milioni: ovvero 26 al minuto.
Siamo in una situazione di vera e propria emergenza. Anche perché questa enorme aggressività che attraversa la società italiana e i rapporti personali è invisibile agli occhi della collettività. Sembra quasi che tanta cruenza sia quasi trasparente: solo il 7,2% denuncia all’autorità giudiziaria, e quasi il 34% passa la vita senza raccontare quello che è successo a nessuno, nemmeno ai propri amici.
E questi non sono solo numeri, né solo percentuali, ma vite spezzate per sempre.
Senza considerare che in questi numeri non si annoverano tutte quelle donne che si tolgono la vita dopo aver subito per anni gravi atti di violenza psicologica, fisica, economica, senza riuscire a denunciare e prive di ogni forza per poter continuare a vivere, vittime di un silenzio terrificante che le soffoca e le porta verso il buio.
Infine, un’ultima considerazione. Secondo una recente indagine Istat, non esiste una particolare differenziazione territoriale in merito all’incidenza con cui le donne tra i 14 e i 65 anni di età dichiarano di subire molestie sessuali o ricatti sessuali sul lavoro.
Chiediamoci allora, quanto vale la vita di una donna?
Anche il nostro Parlamento ha dovuto prenderne atto e il risultato è stata la recente Legge n.119 del 15 ottobre 2013, che ha convertito il Decreto Legge 93/2013 sul femminicidio e il contrasto alla violenza di genere, la quale arricchisce il codice di nuove aggravanti e amplia al contempo le misure a tutela delle vittime di maltrattamenti e violenza domestica. Si tratta di una normativa speciale volta a prevenire e punire alcuni comportamenti invasivi e vessatori che si realizzano per lo più fra persone unite da vincoli affettivi (in atto e/o passati) e che si svolgono in contesti particolari caratterizzati da stretti rapporti personali tra vittima e aggressore. Tra le molte novità, sia di diritto penale sostanziale che procedurale introdotte, mi pare opportuno segnalare la rilevanza attribuita alla relazione affettiva: l’aggravante prevista nei confronti di persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza.
Riguardo a questa aggravante – che aumenta la pena per il reato di violenza sessuale fino ad elevarla da sei a dodici anni di reclusione – bisogna sottolineare la difficoltà di delimitare in maniera chiara e precisa i confini della predetta “relazione affettiva”. E’ evidente che le dinamiche dei rapporti sentimentali tra due soggetti non si prestano ad una definizione netta, e tale circostanza potrebbe effettivamente rappresentare un problema per l’accertamento dei requisiti di legge necessari per il riconoscimento dell’aggravante.
Aggravanti specifiche, inoltre, sono previste nel caso di violenza sessuale contro donne in gravidanza.
Oltre a ciò è da segnalare il reato di atti persecutori, l’ormai noto “stalking”, che anche in questo caso annovera un ipotesi di aumento della pena se commesso nei confronti di persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti elettronici.
Crediamo sicuramente che una legge da sola non possa bastare a dissuadere un soggetto violento, il quale spesso è convinto di essere “nel giusto” e che alcune “correzioni” nei confronti della propria donna siano necessarie. Occorre infatti intervenire nel profondo della nostra società, cominciando dalla famiglia e dalla scuola, ma soprattutto bisogna imparare a guardare oltre, bisogna conoscere bene quel mondo maschile per esempio, dove alcune convinzioni sono radicate fin dall’infanzia proprio da noi donne, dalle mamme, dalle nonne, dalle zie o sorelle, perché a volte basta solo cambiare la prospettiva per insegnare ai nostri bambini a vedere le cose in maniera diversa.
D’altra parte, non va trascurato che il femminicidio trova i suoi presupposti, come già accennato, in un clima culturale.
Dunque, la donna è vittima in un ambiente che le appartiene, che considera suo, ambiente nel quale si aspetta di trovare l’amore, la stima, la fiducia; vittima quindi di una subcultura, ancora imperante e accentuata da momenti di crisi economiche o personali, perché le difficoltà da attraversare così come le frustrazioni sono tante e quotidiane e devono comunque trovare un capro espiatorio e quale migliore della donna, della propria donna.
Sicuramente però, possiamo affermare che per superare questa strage di donne occorre che la nostra società nel suo complesso operi e si attrezzi, che abbia una evoluzione sul piano culturale, operando proprio su quella parte del genere maschile che ancora considera la donna come un oggetto di proprietà e continua a proporre modelli femminili che riducono il valore di una donna esclusivamente alle doti estetiche.
E concludo ricordando una testimonianza riportata nel libro di Tina Lagostena Bassi “Cronaca di una morte annunciata”, che nonostante gli anni risulta sfortunatamente ancora troppo attuale. Così scrive una vittima qualche mese prima di essere uccisa dal marito-padrone: «…sono al limite della mia resistenza psicologica e fisica per aver sopportato per oltre venti anni ogni genere di angheria, violenza morale e materiale sulla mia persona e su quella dei miei figli da parte di mio marito. Ora che con la crescita dei miei figli vedo profilarsi in un futuro sempre più vicino una tragedia più grande di quella che io sono sempre riuscita a contenere, limitandone le conseguenze, mi vedo costretta a prendere provvedimenti ed a chiedere aiuto alle autorità preposte a prevenire che la mia situazione sfoci in qualcosa di irreparabile…».
di Anna Maria Pedarra
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