Lunedì è stato dato il via a varie iniziative ideate per celebrare il 750º anniversario dalla nascita del nostro più grande poeta, considerato il padre della lingua italiana.
Sebbene l’Italia possa permettersi di vantare un genio del suo calibro, è scoraggiante constatare come, per i più, Dante Alighieri non sia che l’autore della “Divina Commedia”, dal momento che la composizione di quest’opera fu sì l’apice della sua produzione artistica, ma non l’unica degna di menzione, soprattutto perché l’operato di Dante non si limitò affatto all’ambito prettamente poetico.
Come ricordava, proprio ieri, Benigni nel suo discorso introduttivo alla successiva Lectura Dantis svoltasi in senato, Dante fu innanzitutto un uomo politicamente attivo, innamorato della sua città e della politica, che non abbandonò nemmeno dopo la condanna all’esilio. Ovviamente più che come attivista politico, anche se questo aspetto della sua vita non può essere affatto trascurato per poter comprendere appieno il significato complessivo delle sue opere, Dante è sicuramente conosciuto principalmente per la sua attività poetica, nella quale si cimentò inizialmente aderendo ai dettami del “Dolce Stil Novo” e componendo lirica d’amore, per poi culminare nella realizzazione di quell’opera Magna che è la “Divina Commedia”. Tra la composizione di liriche, alcune delle quali confluirono nella celebre raccolta intitolata “Vita Nova”, e la stesura della Commedia che lo impegnò per un lungo lasso di tempo, compose altre due opere, il “Convivio” e il “De vulgari eloquentia” entrambi incentrati su di un’accurata riflessione linguistica.
La cultura linguistica di Dante emerge soprattutto nel “De vulgari eloquentia”, dove muove un’attenta analisi attraverso un excursus sulla storia delle lingue a partire dalla creazione dell’uomo, passando per la vicenda della torre di Babele, soffermandosi sul ruolo egemonico svolto dal latino, fino a giungere all’individualizzazione delle diverse lingue parlate in Europa, prestando particolare attenzione, poi, all’analisi delle differenti parlate volgari presenti in Italia. Tra le lingue europee e precisamente tra la lingua d’oil (il francese), la lingua d’oc (il provenzale) e la lingua del sì (l’italiano), Dante riscontra una somiglianza lessicale, e individua quindi la loro provenienza comune dal Latino. Ma mentre quest’ultima, per il poeta, è una lingua artificiale perché normativa, fissata dalla grammatica, e statica nel suo rimanere immutabile, il volgare è la lingua della naturalezza, quella che si impara da piccoli, e quindi quella in cui riporre maggiore fiducia per una divulgazione più ampia ed efficace.
A Dante va riconosciuto, quindi, soprattutto il merito di essere stato il primo teorico della situazione linguistica in Italia, alla quale dedicò una particolare attenzione: dopo aver descritto le parlate europee, infatti, analizzò molto più attentamente le differenti parlate locali o, meglio, i diversi tipi di “volgare” parlati sul territorio italiano, con l’intento di stabilire quale fosse il più appropriato per raggiungere l’apice dell’espressione artistica. Ma nessuna di esse possedeva i requisiti ricercati da Dante, nessuna rispecchiava la sua idea di “volgare illustre”, una lingua epurata dai tratti prettamente popolari e locali, che potesse essere formalizzata per divenire “aulica” e raggiungere un livello alto d’espressività.
Così Dante teorizza la nobilitazione del volgare attraverso la letteratura stessa, portando come esempio il modello seguito da lui stesso e dagli stilnovisti nella loro produzione di lirica amorosa; non stupiscono allora la ricchezza lessicale e la preziosità della lingua riscontrabili nella “Divina Commedia”, opera in cui confluiscono le teorizzazioni e le attente ricerche che, il grande poeta, effettuò in campo linguistico.
In questo poema, infatti, giunge a concretizzazione la messa a punto di una lingua che abbandona del tutto il senso di inferiorità nei confronti del latino, affermandosi, rispetto ad essa, con pari dignità, dimostrando di poter veicolare apici di tensione espressiva al pari di grandi classici della latinità. In questo senso, Dante è il padre della nostra lingua: ha saputo prevedere la possibilità di un’unitarietà linguistica, dando al volgare fiorentino, proprio attraverso la letteratura, la forza per affermarsi come modello linguistico.
di Noemi Cinti
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