Decrescita felice: una scelta ecosostenibile

La pandemia che in questi mesi si è abbattuta non solo nel nostro paese, ma anche a livello globale, avrà delle ripercussioni “involontarie” sociali e sopratutto economiche. 

Sentiamo parlare di Eurobond, Coronabond, decreto Cura Italia e di altri provvedimenti per supportare un sistema economico al collasso, senza per altro intravedere spiragli di luce.

Esiste solo un modello economico?

La crescita economica non è una legge della natura ma la conseguenza di decisioni politiche ben precise.

Premettendo che produciamo più di quanto consumiamo, la crescita economica solitamente tende:

  1. ad avvantaggiare solo una minoranza privilegiata,
  2. ha un pesante impatto ambientale 
  3. non sembra garanzia di felicità, basti pensare al dualismo amletico che spesso ci assilla “vivere per lavorare” o “lavorare per vivere”?

Ebbene, secondo i fautori della cosiddetta “decrescita felice” si potrebbe vivere in maniera alternativa e sostenibile senza trascurare, non solo l'”economia professionale” formale guidata dal denaro, ma anche l’economia volontaria parallela non retribuita, definita “economia amatoriale”, guidata dalle motivazioni affettive delle persone.

Al primo posto la qualità della vita

Questo tipo di economia tende a ridurre la produttività complessiva del lavoro e quindi la produzione di risorse, ma aumenta la soddisfazione e la felicità. Ecco perché l’essenza della decrescita felice si può riassumente nel motto “vivere un’esistenza più appagante ma usando meno risorse”.

Come vive chi pratica la decrescita felice: gli ecovillaggi

Sicuramente il concetto sembrerà astratto o quanto meno utopico, eppure esistono diverse comunità di persone che hanno deciso di optare per questo stile di vita, risolvendo il nodo gordiano relativo alla questione “denaro/felicità”.

  1. Il denaro: serve per soddisfare solo i bisogni primari ed acquistare cose che non possono essere autoprodotte.

Per il resto, negli ecovillaggi di decrescita felice si cerca quanto più possibile di produrre beni (dal sapone agli alimenti) da barattare e condividere con altri individui.

  2. La felicità 

Va da sé che questo stile di vita tende a privilegiare gli aspetti relazionali, con evidente impatto positivo sulla salute mentale e fisica.  

Quali i benefici per il pianeta?  

Tutti abbiamo contezza del fatto che l’uomo negli ultimi secoli ha danneggiato il pianeta con le sue stesse mani e che le risorse naturali andranno via via scomparendo.

In questo contesto, l’idea di una economia più sostenibile e meno consumista potrebbe agevolare un percorso di risanamento ambientale non indifferente.

Entriamo nel dettaglio

Di quanto terreno ha bisogno una persona per raggiungere l’autonomia alimentare? Quanto terreno serve mediamente per l’autonomia alimentare annuale di una persona? Come progettare un insediamento finalizzato al raggiungimento dell’autonomia alimentare? Realizzare l’autonomia alimentare implica anche la riduzione dell’impatto ambientale? 

Troviamo delle risposte a tali quesiti sulla rivista scientifica “Ecologica Indicatoros” (vol. 34, Novembre 2013), tratta dalla tesi di laurea in Scienze Agrarie ed Ambientali della dottoressa Maria Elena Menconi, la quale insieme alcuni amici ricercatori universitari ha sviluppato un foglio di calcolo “in grado di valutare il terreno necessario per l’autosufficienza alimentare annuale di una qualsiasi popolazione, a partire da una dieta media, equilibrata (mediterranea onnivora, secondo i criteri espressi dal C.R.E.A.) e dai fabbisogni energetici per adulti e bambini. Il tutto, considerando le rese delle produzioni biologiche e gli sprechi alimentari medi degli italiani”. 

Un aggiunta, per meglio misurare l’impatto dei diversi stili di vita alimentare, l’autore ha sviluppato ulteriormente il foglio di calcolo inserendo: 

1) 4 diete medie equilibrate (onnivora, onnivora senza pesce, vegetariana e vegana);

2) i fabbisogni energetici per fasce di sesso-età-livello di attività fisica 

3) tutte le principali produzioni zootecniche. 

I risultati

Secondo i calcoli, servono : 4750 m2 per una dieta onnivora, 5170 m2 ha per quella onnivora senza pesce, 4680 m2 per la dieta vegetariana e 1820 m2 per una dieta vegana. 

Come è evidente la dieta vegana è di gran lunga la più sostenibile utilizzando poco più di un terzo del terreno necessario per l’autonomia alimentare in una dieta onnivora” evidenzia la dottoressa, che poi aggiunge “Questo si spiega facilmente se si considera che carne, uova, latte e latticini, considerando gli stili di vita alimentari attuali degli italiani, impattano complessivamente per il 63,8% del terreno necessario all’autosufficienza alimentare (rispettivamente 39,4% latte e latticini, 20% carne, 4,4% uova)”.

Dieta onnivora vs dieta vegana

Interessante anche notare la differenza fra l’uso del suolo per l’alimentazione a base vegetale e quello destinato alla più tradizionale alimentazione onnivora.

Per la studiosa “ciò è dovuto al fatto che la produzione di latte e latticini, presenti anche nella dieta vegetariana, ha un impatto molto grande in termini di utilizzo di suolo. Oltre a ciò va considerato il fatto che, per compensare la riduzione delle proteine provenienti dalla carne, nella dieta vegetariana vengono aumentati i consumi di latticini. Infine, come è risaputo, per produrre latte va prodotta necessariamente anche carne che in una dieta onnivora viene consumata ottimizzando perciò l’impatto dell’allevamento in termini di land use (uso di suolo)”. 

Impatto ambientale 

Tornando al tema della decrescita e al suo impatto ambientale, è interessante inoltre la analisi proposta in questo studio “l’autonomia alimentare, prendendo in considerazione una dieta onnivora, riduce l’impronta ecologica (1) alimentare del’8% rispetto a quella media mondiale e del 47% rispetto a quella di un italiano medio. Tutto questo senza considerare la diminuzione degli impatti derivanti dall’utilizzo di un’agricoltura biologica e dalla riduzione dei trasporti delle derrate alimentari connessa alla rilocalizzazione delle produzioni. Tali risultati sono dovuti prevalentemente alla riduzione degli sprechi alimentari connessi con questa modalità di produzione e trasformazione” spiega l’autrice.

In sintesi, se tutti utilizzassero una dieta vegana e se rilocalizzassimo le produzioni agricole, la riduzione dell’impronta ecologica alimentare sarebbe di circa il 65% in più rispetto a quella mondiale attuale.

Conclusione

Questi dati evidenziano che se vogliamo essere più sostenibili è necessario da un lato rilocalizzare le produzioni e dall’altro cambiare il nostro stile di vita alimentare riducendo il consumo di prodotti di origine animale (in particolare latte e latticini e carne). In altre parole, dovremmo trasformare il sistema di produzione e distribuzione alimentare in modo tale da diminuire l’uso di suolo, l’inquinamento, gli sprechi alimentari e i trasporti di cibo. “La rilocalizzazione delle produzioni e l’educazione alimentare perciò dovrebbero essere uno dei principali obiettivi delle future politiche agricole” conclude la dottoressa. 

Una via di fuga esiste? Probabilmente sì, o almeno approfittiamo per riflettere. 

Fonte foto: viaggiareconlentezza.com

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