Un altro caso di cronaca nera ci altera oggi il tono dell’umore.
Non mi piace sentir parlare di “femmincidio” (sono sempre stata contraria alle differenziazioni di genere e a maggior ragione se si tratta di prodotti legislativi) perché la questione è di altra specie e riguarda il penoso fenomeno delle forzature familiari all’interno delle mura domestiche quando non ci sono più i presupposti per stare insieme.
Nel caso del carabiniere di Cisterna che ha reso in fin di vita la moglie e ucciso le figlie prima di suicidarsi, c’è una storia di violenza familiare pregressa molto difficile, perché il marito era solito picchiare moglie e figlie ed erano già state presentate denunce penali, tra cui quella più recente per stalking e oltretutto l’udienza presidenziale per iniziare il percorso di separazione legale era già stata fissata da qui a pochi giorni.
Questo tipo di irrisolto culturale si manifesta in uomini con istinti primordiali molto accentuati, il cui “malessere assassino” si estende a tutti i componenti della famiglia, ove quest’ultima, evidentemente nell’immaginario di alcuni, a rappresentare il luogo della scontata tranquillità, il letto in cui “il guerriero deve riposare”, oppure – più semplicemente – l’area riservata dove si consuma una lunga storia, anche se questa è finita da un pezzo.
Si tratta, essenzialmente, di un problema culturale perché questo carabiniere impazzito avrebbe ucciso anche figli maschi, pur di non mettere la parola “fine” al suo piccolo mondo malato da una scelta non decisa da lui, perché poi – statisticamente – questi personaggi maneschi dalla “percossa facile” sono gli stessi che, dopo un certo numero di anni, scelgono (quindi decidono) di rimpiazzare la moglie ormai stagionata (e rassegnata) con qualche giovane collega in cerca di marito (e di botte).
Quel che emerge da questa ennesima strage famigliare è il dato inquietante secondo cui la moglie e i figli vengono ancora considerati da certi individui, non come “persone” bensì come un “oggetto di proprietà privata”, nel prosieguo immaginario di antichi riti ove il “diritto di vita e di morte” era prerogativa del capo tribù; sacrificare la vita dei figli trovando il coraggio di ucciderli, nel folle convincimento di fare la “scelta giusta perché non devono soffrire”, è indice rivelatore di un male oscuro profondo che ha messo ormai in difficoltà l’intero gruppo sociale.
Preoccupa infatti il rischio di ulteriori accadimenti analoghi che ci costringerebbero dover leggere ancora notizie di tipo analogo, come in una specie di costante bollettino di guerra.
L’ho presa alla larga, ma la matrice di delitti del genere risiede proprio in queste dinamiche perché la violenza in famiglia, sottovalutata e molto più diffusa di quanto non si creda, è una delle piaghe sociali più inquietanti che ci affliggono; ci sono donne che vivono nella condizione di terrore quotidiano e spesso temono gli effetti ritorsivi delle denunce contro i loro uomini perché temono sensatamente che l’epilogo possa essere proprio questo. Quando si riesce a convincerle di recarsi nei contri antiviolenza con i figli, poi tornano a casa con la “coda tra le gambe” perché l’assistenza è limitata al tempo di consumazione del reato e poi comunque non sanno dove andare.
Per aggiungere una notazione proprio di questi giorni, in clima pre-elezioni politiche e amministrative, ad ogni candidato che mi ha chiesto il voto in queste ultime settimane ho risposto: “Devi mettermi per iscritto che ti darai da fare per favorire la capillarizzazione dei servizi sociali su tutto il territorio perché lo sport italiano non è il calcio ma la violenza in famiglia”. Per tutta risposta, vengo sempre guardata come una marziana dagli stessi che poi si indignano quando ricevono notizie come questa, confermando di fatto che non c’è consapevolezza della diffusione e della gravità del fenomeno.
Nel corso degli ultimi anni, tra avvocati e giudici, abbiamo creato numerosi gruppi di lavoro sull’efficacia punitiva delle previsioni legislative offerte dallo “stalking” e dai “maltrattamenti in famiglia” in generale, ma i dati ufficiali sono sempre sconfortanti: “…c’è poco personale che si può occupare delle indagini…”, “…spesso gli indizi non sono sufficienti per la configurazione del reato…”, “…una volta che il crimine viene “patteggiato” nel processo, lo stalker ricomincia daccapo…” e così via dicendo.
Non mancano quelli che lamentano a loro volta violenza da parte delle donne verso gli uomini con analoga modalità; effettivamente ce ne sono, se pur in maniera più ridotta; il disagio familiare parte dal problema della coppia e le donne con problemi psichici – essendo di norma fisicamente più deboli degli uomini – ricorrono ad altre forme di violenza, principalmente di tipo psicologico che comunque contribuiscono a favorire situazioni borderline.
I maltrattamenti in famiglia sono un campo di difficilissima soluzione, il diritto non arriva a risolvere i casi, non ne è in grado perché l’area legale richiede freddezza e razionalità nell’applicazione delle norme, non riconoscendo tempi e modi di intervento tempestivo; il problema è più di natura medico-psichiatrica e serve competenza specifica in campo psicologico e di sostegno alle famiglie in difficoltà con strutture sanitarie organizzate su tutto il territorio nazionale.
Quel che lascia sempre comunque senza parole, è l’attaccamento morboso alle loro donne nel convincimento di questi soggetti maneschi di “volere solo il bene della famiglia”, ma “a suon di botte”, perché “…se un marito picchia la moglie vuol dire che la ama…”
Se l’avesse amata davvero, l’avrebbe lasciata libera.
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