Digitando il termine “demobuntocrazia” nei motori di ricerca, non si ottengono grandi risultati. Si tratta di un neologismo che il filosofo e storico mozambicano, ricercatore in Italia, Celestino Victor Mussomar, ha coniato con l’intento di guardare al continente africano non più come burattino della decolonizzazione, bensì soggetto protagonista di nuove frontiere storiche.
“La demobuntocrazia è la democrazia deliberativa propria del continente africano – spiega Mussomar – volta a far emergere una nuova realtà: una realtà di Ubuntu, in cui la gratuità è l’elemento fondante. Ubuntu vuol dire ‘io sono perché noi siamo’, vuol dire umanità”.
Ubuntu
Il popolo africano non manca di un’identità propria, tuttavia questa è stata per troppo tempo imposta da qualcun altro. Piuttosto che essere internamente costruita e sperimentata, l’individualità di un autentico tessuto identitario e culturale africano è stato importata e disinteressatamente plasmata da chi non l’ha mai vissuta. In Africa il neoliberalismo è arrivato nella sua forma più paternalista, sotto l’egida di una trinità internazionale: Banca Mondiale (BM), Fondo Monetario Internazionale (FMI) e Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC).
Il neoliberalismo – assieme al suo principio di good governance, ai suoi programmi di aggiustamento strutturale e agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio della Banca Mondiale – ha distrutto la realtà locale. Invece di sradicare la miseria – come auspicato prima dell’applicazione delle politiche neoliberiste – ha esacerbato la povertà. Nel tempo si è venuta a creare una élite politica viziata da nepotismo e clientelismo; essa si è appropriata dei beni pubblici e delle risorse, a fronte di una popolazione poverissima. Questa élite, brava nell’applicare la dottrina neoliberista, è la stessa realtà lodata e sostenuta negli altari del mondo euro-atlantico.
“L’idea del privato e della proprietà privata è un costrutto estraneo alla cultura africana, importata dalla cultura occidentale; questa sta frantumando il tessuto sociale del continente impegnato in una forsennata ricerca e dissennato accaparramento delle risorse. I casi emblematici sono quelli del Congo, del Mali, della Repubblica Centro Africana, della Libia”, racconta il ricercatore.
Ubuntu è il seme dal quale ripartire per avviare un’endogena e autodeterminata ricerca identitaria. L’Africa è un potenziale concentrato di ecologia morale e ambientale per l’umanità; l’umanesimo africano può essere la chiave per il rinascimento culturale continentale nonché di ispirazione internazionale.
Democrazia liberare vs demobuntocrazia
In un’ottica di democrazia liberale, un soggetto è titolare di una serie di diritti individuali che devono essere difesi a tutti i costi. L’individualismo, che è tra le fondamenta della democrazia liberale, ha vinto nella sua forma più egocentrica e individualista, facendo prevalere l’interesse personale e particolare a discapito di quello generale.
“Ubuntu” parte dall’idea di relazione antropologica per cui “io sono perché siamo”. Un soggetto individua e si individualizza mentre socializza e, viceversa, socializza mentre si individualizza. Ubuntu ribadisce la necessità di un’umanità che sappia affrontare, unita nelle proprie differenze, le sfide che il futuro prossimo ci offre.
La demobuntocrazia può avere successo laddove la democrazia liberale ha fallito? È ciò che intende esplorare Mussomar attraverso i suoi studi: “Ubuntu è radicata in quella che io riconosco essere una forma relazionale di personalità; sei a causa degli altri. In altre parole, come essere umano, tu – assieme alla tua umanità e alla tua personalità – sei incoraggiato in relazione ad altre persone”.
Ubuntu significa credere che i legami comuni all’interno di un gruppo siano più importanti di ogni singolo argomento e divisione all’interno di esso; presuppone una riunione tra le parti al fine di costruire un consenso si ciò che colpisce e rischia di dividere la comunità. Ubuntu promuove difatti la giustizia riparativa e un’etica centrata sulla comunità. E’ la stessa giustizia ripartiva dalla quale i capi spirituali sudafricani hanno attinto dopo l’apartheid, e che ha aiutato il paese a fare i conti con la verità e la propria storia di segregazione razziale.
Modernità incompleta
Allan Bloom definisce la nostra società “una cultura incolta”, ignorante, deleteria, i cui effetti sono perlopiù visibili in campo politico, dove la democrazia ha finito per accettare idee volgari, nichilismo e disperazione, relativismo mascherato da effimera tolleranza. Abbiamo a che fare, secondo Bloom, con un popolo che, senza capire il passato e privo di una visione futura, vive un presente impoverito.
Jürgen Habermas preferisce parlare di modernità incompleta come di una modernità che non ha adempiuto alle sue promesse, in particolare all’emancipazione dell’uomo. Ciò che accertiamo è la mancanza di un pensiero che possa aiutarci a percepire e comprendere in maniera approfondita e consapevole la realtà in cui abbiamo vissuto.
Abbiamo assimilato i cosiddetti moderni valori occidentali senza discuterli nè vagliarli. Questa è l’esperienza dei paesi africani: la modernità è stata esportata ma mai contestualizzata, adattata, localmente costruita e integrata.
È necessario, nel campo pedagogico, cercare radicare l’uomo all’ambiente. La cultura occidentale della modernità è stata imposta dall’espansione europea, in nome di una civiltà regalata ad altri popoli sotto forma di cristianesimo, civiltà e commercio. Abbiamo dimenticato i valori e la soggettività di questi. La filosofia di Ubuntu mira a incarnare l’individuo e la società, principi rintracciabili nel concetto di “risonanza personale” dei valori, quindi soggettiva, ideato da Charles Taylor.
Una nuova “crazia”
Diversamente dall’individualismo, Ubuntu difende i valori di umanità, solidarietà, fraternità, libertà, cooperazione, uguaglianza e ospitalità; è a favore della persona e della società allo stesso tempo. Victor chiama questa ipotesi “Demobuntocrazia”, essa può essere raggiunta solo attraverso l’educazione alla cultura democratica.
NELSON MANDELA, “IL GRANDE CAMMINO VERSO LA LIBERTÀ”, E L’ UBUNTUMANITÀ…
TUTTAVIA, FORSE, E’ BENE RICORDARE CHE LA PAROLA “UBUNTU” viene dalla lezione di un “ragazzo della tribù Xhosa”, da Nelson Mandela: “[…] in Sudafrica, dove sembra che l’avventura di tutto il genere umano sia cominciata, si ricordano e sanno, come tutto ha avuto inizio, e, con un bel termine e un bel concetto – ubuntu, così traducono e dicono: “Le persone diventano persone attraverso altre persone”. Nelson Mandela (Rolihlahla, il suo nome originale e tribale significa “colui che tira il ramo di un albero”, o se si vuole e più chiaramente “colui che è un attaccabrighe” contro l’ingiustizia e la disumanità), questo l’ha appreso sin da piccolo, non I’ha più dimenticato, e ne ha fatto la stella-guida di tutta la sua vita e della sua lotta: “La struttura e l’organizzazione delle antiche società africane (prima dell’arrivo dei bianchi) mi hanno molto affascinato e hanno profondamente influito sull’evoluzione della mia visione politica. La terra, allora il principale mezzo di sostentamento, apparteneva a tutta Ia tribù, senza proprietà individuale. Non esistevano classi, né ricchi o poveri e nemmeno sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Tutti erano liberi e uguali e questo era il fondamento del governo [… ] Un tempo mitico nel senso proprio del termine, con tutti i valori pedagogici che ne derivano. L’obiettivo, a cui tendono gli anziani della tribù, è quello di trasmettere un messaggio ai giovani: la libertà è esistita; bisognerà riconquistarla” (cfr. Lungo cammino verso la libertà, Milano, Feltrinelli, 1995, p. 20) […]” (cfr. “CHI” SIAMO NOI, IN REALTÀ. Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ …pdf, pp. 17-18: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5722).
Federico La Sala