Questo “Dogman” di Matteo Garrone, in concorso a Cannes 2018, prodotto da Jeremy Thomas (che è uno dei produttori di alcuni dei più disturbanti e recenti film di Bernardo Bertolucci e David Cronenberg) presenta più di un punto di interesse.
Contro-programmato da “Rabbia Furiosa”, pellicola del regista horror allievo di Dario Argento, Sergio Stivaletti (che affronta le parti più scabrose e violente della vicenda del Canaro della Magliana), il film di Garrone si muove, come sempre nei lavori del regista di “Gomorra”, più per sottrazione che per addizione, cercando di creare una situazione di attrazione-repulsione nei confronti della vicenda narrata, avvicinandoci ai sentimenti dei protagonisti e di colpo mostrandocene l’abiezione e l’orrore.
Dichiarando di ispirarsi “liberamente” ai fatti che scioccarono l’opinione pubblica nel lontano 1983 e avvenuti nel negozio di cani dalle parti della Magliana, “liberamente” però ce ne racconta, sempre in maniera allusiva e indiretta, alcuni probabili e possibili retroscena, ignoti all’opinione pubblica.
Marcello (il chapliniano e keatoniano attore non-professionista Marcello Fonte, sono parole di Garrone) fa il toellettatore di cani, è un personaggio timido e schivo ma dotato di una certa umanità e anche simpatia, ha una figlia con cui partecipa a concorsi di bellezza canini e con la quale va a fare immersioni subaquee al largo, e ha come amico un certo Simone, bullo di quartiere a cui spesso e volentieri fornisce cocaina tagliata male per pochi spiccioli. Abitano e agiscono tutti in un quartiere isolato e molto particolare, il cui set è stato allestito al Villaggio Coppola: questo luogo vicino Caserta, dove il regista ha ambientato altre sue pellicole, ha caratteristiche che lo rendono simile ad un villaggio urbano da spaghetti-western, isolato a sé stesso, abbandonato come un’oasi in pieno deserto, nei pressi del litorale e con una luce particolare che avvolge cose, persone ed edifici.
Simone il bullo, l’ottimo e credibile Edoardo Pesce truccato in maniera ancora più truce, col tempo diventa sempre più intrattabile, manesco, violento. Vessa Marcello e con lui altri personaggi del quartiere, fra cui il gestore del ComproOro adiacente al negozio di cani e il barista che gestisce la sua attività lì vicino. Tutti si sono resi conto che Simone è diventato oramai una mina vagante e, durante una tavolata post-prandiale, presente anche il timido Marcello, cominciano ad alludere al fatto che qualcuno prima o poi dovrà intervenire in questa situazione, che prima o poi il bullo farà, vuoi o non vuoi, una brutta fine, e fanno riferimento, fra le righe, a persone che alcuni di loro conoscono e che vengono “da fuori”.
Marcello, che nonostante tutto è molto amico dello scomodo Simone, fa lo gnorri, minimizza i fatti, finché a causa di una serie di vicende che non riveliamo per non essere accusati di eccesso di spoiler, si trova nella situazione in cui è “pesantemente” indirizzato a denunciare “l’amico”. Marcello però si rifiuta, e finisce per questo in un guaio legale che lo fa finire in prigione per un anno.
Una volta fuori di galera, Marcello si trova isolato da tutti i suoi “paesani”, che lo accusano di essere complice del bullo, di averlo coperto proprio quando avrebbero potuto tutti liberarsi di quel peso insopportabile. Nel quartiere non ha più un amico, e oltretutto Simone non è affatto riconoscente per il gesto di amicizia di Marcello, anzi lo continua a tartassare e a farlo oggetto di bullismo in modi sempre più continui e invadenti.
“Eri uno di noi, ora sei un traditore!” sentenzia il barista, l’attore Francesco Acquaroli ottimo caratterista del cinema italiano, mentre butta fuori in malo modo Marcello dal suo bar.
Da lì si sviluppa la dinamica ben nota dei fatti: il Dogman, esasperato, emarginato e livido di delusione e rabbia, attira Simone nel suo negozio, con uno stratagemma lo chiude in una gabbia per cani, e poi succede quello che succede. Garrone non ci mostra quasi nulla del fatto di sangue (basti ribadire che il corpo del bullo è stato orrendamente mutilato per ore e il cervello, stando alle rilevazioni tratte dalla scena del crimine e dalle dichiarazioni degli inquirenti, lavato e risciacquato con detersivo per cani, ma ci penserà il film di Stivaletti ad approfondire). Come sempre nei suoi film l’orrore di Garrone è psicologico, morboso, allusivo. Gli indizi che ci ha lanciato sono stati chiari ma il regista si ferma qui, né in questa sede ci possiamo mettere a fare i detective su come siano andate realmente le cose. La perizia sul “vero” Canaro, affidata a medici legali e psichiatri dell’università La Sapienza, attesterà la incapacità di intendere e di volere dell’uomo.
Garrone, al contrario del suo “fratello di cinepresa” Paolo Sorrentino si muove da sempre in maniera diversa e speculare. Mentre Sorrentino, a nostro avviso erede di un fellinismo nei suoi aspetti più deteriori, affronta di petto, con “Loro 1 e 2” in sala in questo periodo, il Corpo del Re (o ex-Re), tentando di dotare le due pellicole di aspetti barocchi, immaginifici e anche esoterici (e sempre a nostro avviso, fallendo clamorosamente il bersaglio), Garrone fa il contrario: sceglie una vicenda minimale, piccola seppur di grande risonanza mediatica all’epoca, in cui però si avvertono le scosse telluriche di qualcosa che viene da “fuori”, dal Sistema più ampio di riferimento i cui effetti si manifestano, in un gioco di maglie concentriche stringenti, anche nel micro-sistema. Di film sul timido che si vendica sul suo aguzzino ce ne sono molti, dice Garrone in una intervista, da “Cane di paglia” a “Il borghese piccolo piccolo”, ma sono pochi quelli che scendono così visceralmente nelle emozioni dei protagonisti e nelle concatenazioni di cause ed effetti che li muovono.
Le immagini finali, fortemente simboliche, ci mostrano il Dogman che si aggira, come da locandina, portando sulle spalle il corpo senza vita del suo persecutore, in una sequenza che ha dei forti connotati di “contrappasso” dantesco: l’uomo porterà per tutta la vita sulle spalle il peso di questo orribile delitto. Grida e cerca la complicità degli altri abitanti del “villaggio” ma, simbolicamente, non gli risponderà nessuno e resteranno, lui e il cadavere che si porta dietro, soli al centro della piazza deserta e abbandonata.
In questo senso ci viene in mente una frase scritta da Pier Paolo Pasolini e presente nel suo testo teatrale “Calderon” del 1968 e che recita così: “Anche fra gli esclusi ci sono gli esclusi!”
Questa può essere una perfetta epigrafe su tutta la brutta e angosciante vicenda del Dogman di Garrone, alias il Canaro della Magliana.
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