Don Ciotti a Trieste: il coraggio civile

donciottiTRIESTE – “Totò Riina è nessuno, anche se ha detto che mi vuole ammazzare!”

Don Luigi Ciotti urla, e sbatte per l’ennesima i pugni sul tavolo: la lotta alla mafia l’ha cominciata cinquant’anni fa con il gruppo Abele prima, con l’associazione Libera poi.

Il 16 ottobre è stato ospite dell’Università di Trieste, in occasione del secondo colloquio sui Doveri Umani, intitolato Coraggio Civile. Gesticola con forza, agita il dito minaccioso contro la platea: i soliti capelli unti e la polo a manica lunga. Di coraggio Ciotti ne ha da vendere. Ogni tanto l’occhio fugge in prima fila, dall’amico don Mario Vatta fondatore della comunità di aiuto “San Martino al Campo”: don Luigi Ciotti e quel barbabianca in platea si sono “incontrati sulla strada”. Letteralmente.

L’ideatore di Libera parla con la sua voce forte ed un po’ triste, ma sempre lucida: è la lucidità necessaria per cogliere la Bellezza, dice.

Rallenta un attimo, si rende conto che le sue parole sono troppo astratte. Ricomincia.

“Ci hanno rubato le parole: noi, ci hanno rubato. Quel senso di unità. Ci hanno rubato la parola legalità che hanno reso -ironizza Ciotti- malleabile e sostenibile.”

E continua: “ci hanno rubato la parola antimafia: ormai è un documento di identità da tirare fuori per l’occasione!”.

Il coraggio -tema della conferenza- di Ciotti sta nell’impegno che, da quando aveva appena diciassette anni, ha messo nei progetti in cui credeva: l’impegno quotidiano, svela il presbitero, fa di noi dei cittadini –altra parola chiave dell’incontro. Si scaglia contro la cittadinanza “ad intermittenza”, perché non basta commuoversi.

Non basta il sentito dire, l’indignazione fine a se stessa: “gli indignati di ieri sono i rassegnati e i cinici di domani”.

Le parole di Ciotti, in un panorama politico di slogan vuoti, tuonano: le mafie sono forti quando la politica è debole. Percepisce che, a Trieste, mafia è qualcosa di vago ed astratto. E cita Rita Atria (testimone di giustizia adolescente): “bisogna innanzitutto sconfiggere la mafia dentro di noi”.

Vede gli occhi dei suoi ascoltatori ancora un po’ vacui, forse. “Rischiamo di morire di prudenza, diceva Primo Mazzolari”.

Parla ancora di impegno, delle cooperative costruite sui terreni confiscati alle mafie, perché “liberare le terre significa liberare le persone”; di potere, il quale non è un privilegio ma responsabilità: non opacità, ma trasparenza. Un servizio.

A chi gli domanda cosa sia la legalità, risponde così: “è la saldatura tra la responsabilità -individuale- e la giustizia –collettiva”.

Ha concluso il suo intervento Don Luigi Ciotti: a quell’assemblea rivela un’ultima cosa, un suo piccolo sogno. “Sogno una società di uguali cittadini, ma di persone diverse”.

Partono gli applausi, Ciotti si alza, esce là fuori: dove lo attende la scorta, gli uomini in borghese, le minacce di Riina più vivide della sera che ormai è scesa.

Si torna tutti a casa. Lui, forse, un po’ più cittadino degli altri.

di Giovanni Succhielli

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