I servizi segreti italiani, nella relazione presentata al Parlamento descrivono un Italia sempre più esposta al rischio terrorismo islamico. L’attenzione principale, secondo i servizi, va rivolta verso la Libia, dove auspicherebbero una soluzione militare e precisando, addirittura, che non può dirsi ancora concluso il pericolo anarchico-insurrezionalista e brigatista. A leggerle attentamente, però, tali considerazioni sembrano dettate dalla politica o dall’esigenza di maggiori finanziamenti, piuttosto che da reali informazioni acquisite.
Al momento, la diplomazia italiana è sicuramente attenta a ciò che succede nella sponda libica del Mediterraneo e le dichiarazioni del governo, in apparenza, sembrano coerenti con quanto auspicato dai servizi: “L’Italia è pronta ad azioni militari” – ha più volte affermato il ministro Gentiloni – affrettandosi, però, ad aggiungere “se sarà necessario, agiremo con i nostri alleati, su richiesta del governo di Tripoli e nel quadro dettato dalle risoluzioni dell’Onu”. Qualsiasi operazione in Libia, quindi, secondo il governo italiano, è condizionata al consenso di quello libico, anche per quanto riguarda le valutazioni da fare sulla lotta al terrorismo dell’ISIS. Solo successivamente si potrà avviare una campagna militare.
C’è soltanto una “piccola” considerazione da fare, che pesa come un macigno: purtroppo, in Libia, un governo di unità nazionale, che assorba i due oggi esistenti a Tripoli e a Tobruk, ancora non esiste. Inoltre, il nuovo governo – che, prudentemente, si stabilirà a Tunisi – non potrà avere subito né l’autorità né la forza necessaria per sostenere l’azione occidentale e per contrastare “i signori della guerra” delle varie fazioni, soprattutto se dovrà anche lottare contro la criminalità organizzata strettamente collegata a quest’ultimi. Quindi, ci penserà due volte prima di chiedere un intervento straniero.
Ciononostante, la prudenza del ministro Gentiloni, è dettata da grande realismo. In primis perché raid aerei o missioni di commandos contro il Califfato, condotti per colpire una base o una colonna meccanizzata, non avrebbero altro effetto che attrarre nuovo sostegno all’ISIS e ulteriore terrorismo in Italia e in Europa: ogni cento militanti eliminati ne arriverebbero migliaia.
Nonostante le esternazioni dei nostri servizi segreti, infatti, l’ISIS libico sembra più un “mostro” creato dai media (o dai servizi segreti), che un pericolo reale. Non per nulla, gli attentati in Europa sono stati fatti da cittadini occidentali e non da militanti libici. Verosimilmente, sono le numerose formazioni jihadiste operanti in Africa del Nord, ad aver maggiori capacità tecnologiche e di reclutamento nei paesi europei.
La tesi del ministro degli esteri è quella che ogni intervento militare deve aver chiari gli scopi politici che deve perseguire, i costi e i rischi che si devono affrontare, prima di essere autorizzato; si deve prima capire se valga o meno la pena imbarcarsi in una campagna che prevedibilmente sarà lunga e sanguinosa, con la disponibilità di forze limitate e in grado – comunque – di ottenere risultati solo parziali e temporanei.
Nel caso libico, inoltre, le bellicose dichiarazioni di esponenti del Pentagono, sembrano solo ipotesi irrealistiche o appese nel vuoto. Dovremmo allora essere noi a mostrare i muscoli, armando i Tornado già schierati in Iraq o contribuendo con un’escalation di attacchi di droni da Sigonella? Forse è meglio avere un’idea più precisa di come curare le cause profonde dell’instabilità, prima di attaccare. L’Isis, infatti, si rafforza perché entrambi i governi e le milizie in lotta continuano a dare priorità alla guerra civile e proseguono ad utilizzarla nella guerra fra loro. Tutto ciò perché finanziati a tal scopo dai soggetti più disparati (Francia, Turchia, Egitto e Qatar). Solo un effettivo e definitivo embargo globale alle fazioni, potrebbe creare le condizioni per un governo unico e la collaborazione con una coalizione di Stati occidentali.
Per quanto ci riguarda, l’interesse nazionale italiano che oggi potrebbe giustificare un intervento armato è il controllo delle coste, per limitare l’afflusso di migranti e rifugiati. Ma i “barconi” sono collegati con le organizzazioni criminali delle milizie più radicali e, soprattutto, con quelle della mafia e della ‘ndrangheta; noi, pertanto, non potremmo farcela da soli o con l’appoggio aereo e navale di pochi volenterosi alleati. Senza la cooperazione delle milizie e della polizia libica vi è ben poco da fare. Le perdite in termini di vite umane sarebbero troppo rilevanti per essere accettate dall’opinione pubblica.
di Federico Bardanzellu
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