In un’intervista rilasciata a OPEN il 5 febbraio 2020, l’epidemiologo PierLuigi Lopalco spiegava perché il nuovo coronavirus non potesse ancora essere definito pandemico. «La pandemia si verifica nel momento in cui un virus riesce a stabilirsi e circolare in più di un continente. Non basta avere un caso importato negli USA o in Italia […] Ci deve essere una circolazione locale stabilita; al momento abbiamo fuori dalla Cina solo casi legati ai movimenti turistici».
Pandemia o epidemia, fa poi tutta questa differenza?
Il termine pandemia, dal greco, composto da pan ‘tutto’ e demos ‘popolo’, cioè “tutto il popolo”, indica un’epidemia che si espande rapidamente diffondendosi in più aree geografiche del mondo.
L’OMS riconosce che l’epidemia di Covid-19 potrebbe diventare pandemica, ciononostante è molto cauta nel farlo. Tra i motivi per cui si guarda bene dal dichiararlo potrebbe esservi il panico che una simile dichiarazione può suscitare, oltre a voler evitare che ciascun paese attivi individualmente il protocollo nazionale per far fronte all’emergenza – protocollo che potrebbe tuttavia rivelarsi inappropriato nel caso specifico.
Tre sarebbero i criteri utilizzati per definire una pandemia, secondo quanto riportato dal principale istituto nazionale di sanità pubblica degli Stati Uniti (CDC, Centers for Disease Control and Prevention): 1) rapida diffusione tra individui, 2) causa di morte, 3) diffusione del virus a livello globale.
E’ il terzo criterio a lasciare aperto il dibattito, con circa 91 paesi nel mondo, secondo le ultime stime (ANSA), colpiti dall’influenza.
Il greco ci salverà?
Ad oggi, secondo Pierluigi Lopalco, tecnicamente questa è una pandemia. «Perché l’OMS non sta dichiarando la pandemia? Molto semplice, perché non ne ha bisogno: dal momento in cui, ormai da settimane, ha dichiarato l’emergenza sanitaria internazionale, si è anche dotata degli strumenti legislativi per intervenire in tutti gli stati del Mondo» (Lopalco, Agorà Rai 3).
Puntuale interviene Michele Mirabella, tra gli ospiti del programma Agorà, che invita a riprendere l’etimologia greca del termine: «E’ che non studiano più il greco: saprebbero altrimenti che il tarmine pandemia non indica la minaccia particolarmente grave di una malattia esponenzialmente virulenta. E’ un fenomeno di tipo sociologico-medico: quando un’infezione dilaga in tutto il pianeta, come sta succedendo, blanda o severa che sia, si chiama pandemia. Avere paura delle parole è tipico di chi non ha studiato, perché non sa il significato delle parole». Una puntualizzazione che potrebbe a tratti suonare fastidiosamente saccente ma senza dubbio accademica.
«Siamo di fronte ad una pandemia e come tale va rispettata. Si tratta di rallentare il contagio. Fare in modo che il contagio esca alla spicciolata», Ilaria Capua, virologa italiana tra le ricercati più apprezzate nel mondo, in collegamento dalla Florida a ‘Piazza Pulita’ (La7). Concludendo con un elogio alla sanità italiana, ci ricorda tuttavia che l’Italia “ha anche un Sud”.
Niente panico, “solo” responsabilità
Dopo una fase di grande allarmismo e sovrabbondanza d’informazioni – non sempre comunicate nel modo e nei giusti tempi – sembra che ora il nostro governo sia pressoché concorde nel volersi curare anche della psicosi generata dall’epidemia e dalla disinformazione.
Secondo Lopalco è bene distinguere tra quelle che sono opinioni personali e quelle che sono invece evidenze: «Abbiamo evidenze piuttosto forti che la chiusura delle scuole in corso di pandemia influenzale, cioè del virus dell’influenza, è efficace per rallentare i contatti. Alla domanda “se chiudo le scuole blocco il coronavirus?”, io rispondo “no, non so”; alla domanda “è ragionevole chiudere le scuole sulla base delle evidenze scientifiche raccolte fino ad ora?”, allora rispondo “si, è ragionevole”.
L’emergenza nazionale non è data dalla mortalità dell’influenza, bensì dal rischio di collasso che il nostro sistema sanitario potrebbe correre. La percentuale di contagiati sembra crescere infatti nell’ordine del 25% al giorno negli ultimi giorni; questo fa temere un sovraccarico per i nostri ospedali in termini di numero dei ricoveri. Senza trascurare, inoltre, beffardamente, il noto gap di performance sanitaria esistente tra nord e sud Italia: laddove alcuni sistemi sanitari regionali stanno infatti dimostrando di saper funzionare bene e reggere l’urto, vi sono altre regioni che non possono garantire altrettanta efficienza, in particolare nel Sud, dove il sistema sanitario risulta meno solido.
Ne usciremo, come?
Unica nota positiva che l’emergenza Covid-19 può forse al momento contare è l’auspicata riscoperta del ruolo della scienza in un paese in cui ognuno pensava di poter fare lo scienziato comodamente da casa propria consultando i social.
Fors’anche la decisione, da parte del governo attuale e di quelli che seguiranno, di un’inversione di rotta? Abbiamo soldi da investire per far crescere la guerra nel mondo, ma non per sviluppare la ricerca in Italia.
Rivedere i nostri “cattivi investimenti” è forse una delle lezioni che l’Italia potrà apprendere ridestandosi dall’oblio culturale nel quale si culla ormai da troppo tempo. Una lezione che, idealmente, potrebbe incominciare con un “grazie”, preceduto da sincere scuse, rivolte al lavoro accademico, bistrattato, e alle sue eccellenze precarie e sottopagate. Lo stesso “grazie”, indubbiamente sincero, che è stato riservato alle tre ricercatrici dell’ospedale Sacco di Milano in grado di isolare il ceppo italiano del Coronavirus.
Come combattere un’infodemia?
L’altra lezione che dovremo per forza di cose apprendere è quella di un’accurata informazione e di un piano di comunicazione adeguato in caso di future epidemie e/o influenze importanti, considerata la frequenza con cui – si prospetta – ci troveremo ad affrontarle. Abbiamo forse imparato che, oltre agli sforzi condotti per rallentare la diffusione dell’epidemia, sono anche altre le misure di contenimento da mettere in atto, di fronte ad una pestilenza globale di disinformazione – che si diffonde con una rapidità ancora maggiore di quanto non faccia l’influenza stessa.
«Non stiamo solo combattendo un’epidemia, stiamo combattendo un’infodemia» , ha affermato il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus alla Conferenza di sicurezza di Monaco del 15 febbraio.
Quello che è augurabile aspettarsi pertanto nel caso di future emergenze sanitarie non è un bollettino di guerra, piuttosto un bollettino epidemiologico del ministero della sanità, come normalmente avviene per tutte le epidemie ed influenze.
Rallentare senza recessione è possibile?
Amaro ma vero, questo dramma potrebbe nascondere – in fondo, in fondo – ancora un altro effetto “positivo”: di fronte ad un dimezzamento dell’inquinamento atmosferico registrato nei cieli cinesi (BBC), sarà forse questa l’occasione di cui approfittare per mettere spontaneamente in quarantena i nostri ritmi capitalistici e stili di vita tossici senza dover attendere imperiali punti di non ritorno?
Lo scioglimento dei ghiacciai è infatti una realtà di gran lunga più pericolosa del coronavirus. Parola di scienza. E il menefreghismo è un altro morbo, poco trattato e perlopiù basato su percezioni, ma non per questo meno infido.
Ecco cos’altro può insegnarci il coronavirus.
Fonte foto: realhealthnews.net
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