Enea e il conflitto tra il destino e la libertà di scelta

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Nel saggio Invito a rileggere l’Eneide (posto come prefazione all’edizione Einaudi dell’opera), Rosa Calzecchi Onesti descrive il capolavoro di Virgilio come «il poema dove non ci sono vincitori, solo uomini vinti dalla incomprensibile forza del Fato, che li annulla proprio nel loro tentativo di vivere e di essere uomini, sia che si ribellino disperati, sia che pazienti e devoti, come il pius Enea, si sforzino di realizzare quell’oscura necessità». La vicenda narrata nell’Eneide infatti è interamente tracciata dal destino, la cui volontà si esprime attraverso numerose profezie, travolgendo inesorabilmente i destini individuali. Ciò che vogliono gli uomini non conta. Tantomeno conta ciò che desidera Enea, valoroso figlio di Venere che risulta più uno strumento divino che l’autore delle proprie scelte. 

La destinazione di Enea è chiara, è Giove stesso ad annunciarla: «Egli/ guerra grande farà in Italia, popoli fieri/combatterà, leggi e mura darà alla sua gente,/fin che regnare sul Lazio la terza estate lo veda/e sian passati tre inverni dalla sconfitta dei Rutuli». Ma il Padre degli dei va oltre. Predice anche che il figlio di Enea, Ascanio, quando sarà adulto sposterà la sede del regno del padre da Lavinio a Alba Longa. Questa città darà i natali a Rea Silvia, la madre di Romolo, colui che fonderà Roma e ne sarà il primo re. E la storia proseguirà fino ad Augusto «che per confine all’impero l’Oceano darà».

Il sacrificio di Didone

Ogni evento narrato nell’opera si svolge in modo che questo destino si compia, nessuna libera scelta può comprometterne il successo. Gli dei — al netto della strenua opposizione della dea Giunone, nemica giurata dei Teucri già dai versi dell’Iliade — favoriscono il Fato anche al costo di sacrificare qualche anima innocente. Grande è soprattutto il sacrificio di Didone, regina di Cartagine. Com’è noto, innamoratasi di Enea per intervento di Venere, alla partenza dell’amato la donna muore suicida gettandosi su una pira infuocata. Credeva di poter sposare Enea e governare con lui Cartagine. Ma non era quello il luogo del destino e nemmeno la forza della sua ossessione ha potuto cambiare le cose.

L’esito della sua storia appare eccessivamente tragico rispetto al motivo del sacrificio. Solo potenzialmente la regina di Cartagine avrebbe potuto rappresentare una minaccia per Enea. Forse avrebbe potuto tradire i troiani dopo aver accettato di ospitarli, oppure no. Venere tuttavia ha scelto di non rischiare e garantire al figlio un’accoglienza benevola, per questo l’ha condannata a un amore infelice. Se guardiamo a Didone con gli occhi dell’uomo contemporaneo, la donna non può che apparirci come una vittima: indotta all’ossessione con l’inganno, abbandonata e uccisa dalla disperazione solo per un “se”. Ma se ci sforziamo di guardare alla vicenda con gli occhi degli dei dell’Olimpo, del Fato e degli antichi romani, quello che vediamo è un alfiere sacrificato per evitare lo scacco matto. Allora tutto, se non giustificabile, diventa più comprensibile. È solo questione di prospettiva.

La prospettiva dell’Impero

In questo conflitto di prospettive c’è tutta la distanza tra la mentalità individualista che caratterizza l’uomo contemporaneo e la mentalità fondata sul primato della collettività tipica dell’Impero romano. Secondo gli antichi romani raggiungere la grandezza e essere protagonisti della Storia conta molto di più della sorte del singolo individuo. Questo approccio ricorda un po’ la Natura matrigna leopardiana, che guarda alla sopravvivenza delle specie senza curarsi delle sofferenze di coloro che quelle specie le compongono. Con gli ingredienti aggiunti di un’ambizione smisurata, della convinzione di una sorte di successo perenne e, d’altra parte, del bisogno di conquistare i cuori degli abitanti dell’impero mediante la propaganda.

Lo stesso Enea è infinitamente meno importante della sua missione. Missione che il più grande letterato del I secolo, Virgilio, ha narrato proprio a fini propagandistici: per esaltare la grandezza della stirpe Iulia e cantare le lodi di Augusto. Proprio quell’Augusto che alla fine ordinerà la pubblicazione dell’Eneide anche quando l’autore dirà di volerla distruggere. L’opera infatti era rimasta incompiuta. Un’incompiutezza che, come scrive Calzecchi Onesti, tutto sommato si presenta come l’oggettivazione di una domanda interna a Virgilio rimasta irrisolta: in questo mondo dominato dall’onnipotenza del Fato «che posto resta per i valori dell’uomo, che non hanno senso senza la libertà?»

Foto di Fran Soto da Pixabay

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