Due gemelli, Romolo e Remo, abbandonati dentro una cesta in balia dell’acqua bionda del Tevere, ed una Lupa che li svezza. I gemelli crescono, segnano confini e si contendono il potere. Sul fratricidio viene fondata la Città Eterna. Così ci hanno sempre descritto l’origine di Roma. Sicuramente, dopo che li ha condotti in salvo, il Tevere ha rappresentato per i due fanciulli un elemento amico, nel quale nuotare, giocare, sul quale navigare. La navigazione tiberina, antenata del canottaggio, nasce, dunque, prima di Roma? Enrico Tonali, noto giornalista sportivo e storica voce del canottaggio italiano, pone questa fatidica domanda nella premessa di un suo libro di prossima uscita, nel quale ripercorre le origini del canottaggio romano. Se ne riproduce qui una parte, in esclusiva per i lettori di InLibertà [Redazione]
Er mostro
di Enrico Tonali
Per la verità, il canottaggio nell’Urbe vide la luce un secolo e mezzo fa, tra le schioppettate delle guardie papaline e coi primi vogatori capitolini infrattati tra i canneti di Ripa Giudia.
Quando nel 1870 l’Italia si appropriò di Roma, il Tevere era un mostro. Sacro quanto vi pare, ma mostro. Infatti erano appena passati cento giorni dalle cannonate conquistatrici di Porta Pia che “fiume” (come lo chiamano i romani) se ne andò a zonzo per l’Urbe con una piena la cui portata fu considerata una delle più notevoli dopo quella terrificante del 1598, e in base alle cui caratteristiche verranno poi costruiti i tanto discussi e devastanti, ma salvifici, Muraglioni.
Le inondazioni erano ricorrenti da sempre, fin dalla fondazione di Roma. Tanto disastrose che il popolo le legava spesso a maledizioni e messaggi diabolici. Nel 716 la Luna apparve tinta di rosso sangue, un fenomeno che durò oltre la mezzanotte e venne interpretato come il presagio di una disgrazia in arrivo sulla città. Il Tevere qualche mese dopo si gonfiò come mai, uscì dall’alveo sommergendo tutto tra Ponte Milvio e la prima Basilica di San Pietro. In caso di piena eccezionale, l’antico attraversamento della Flaminia sul fiume (appunto Ponte Milvio) funzionava da diga sommersa, facendo deviare le acque tumultuose verso la Porta del Popolo (allora detta Porta Flaminia) e – incuneandosi nelle fenditure delle Mura Aureliane e sotto i battenti, a volte addirittura divelti, della Porta – per tutto il Campo Marzio, la Via Lata (oggi il Corso) e le pendici del Campidoglio (l’attuale Piazza Venezia). L’acqua superava i 2 mt di livello e vi rimaneva anche una settimana, lasciando poi uno spesso strato di fango putrescente e numerosi edifici pericolanti.
Gli unici a cavalcare il mostro erano i marinai delle piccole – ma capaci e robuste – navi che scaricavano a Ripa Grande e a Ripetta sia la legna di Maremma che il vino di Sicilia e, dalla seconda metà del 1800, alcuni nerboruti giovanotti con un curioso cappelletto a pon-pon, i quali remavano da Ponte Milvio all’Isola Tiberina su lancioni da salvataggio o “canotti” affusolati acquistati all’estero (perciò quei giovanotti venivano chiamati “canottieri”). Nocchieri e mozzi, quando fiume saliva e allagava Roma, dall’Acqua Acetosa alla Basilica di San Paolo, si affidavano alla Madonna appendendo sulle loro imbarcazioni le candele benedette ricevute a Santa Maria dell’Orto nel giorno della Candelora. I canottieri sembravano invece a loro agio sull’acqua limacciosa e giravano allegri ma anche premurosi nel portare aiuto, con le loro barche, ai romani in difficoltà nelle strade e case allagate.
Sul Tevere c’erano anche i “barchettaroli”, che però non godevano di buona fama, soprattutto da parte delle autorità, probabilmente a causa della loro litigiosità, spesso causata dalle abbondanti bevute nelle osterie. Il ministro del Commercio dello Stato Pontificio metteva infatti in guardia i cittadini “trattandosi che i pescatori e i barchettaroli vengono giustamente considerati come la parte più demoralizzata e nociva della società”. Remare era d’altronde un gesto da condannati alle galere, pena tra le più temute per la durezza della vita a bordo, incatenati giorno e notte ai banchi-voga. Tanto che chi veniva graziato dal capestro o dalla mannaia, era per lo più inviato a fare il galeotto a vita. Come capitò a Bernardo Cenci, l’unico dei fratelli di Beatrice non giustiziato nel 1599.
Per i canottieri il discorso era diverso. Con l’arrivo della ginnastica a Roma, il gesto sportivo venne accostato al divertimento, pur se la cura del corpo era a malapena tollerata dai governanti capitolini, sempre preoccupati quando troppe persone si riunivano assieme per qualsiasi motivo. D’altronde il vigore fisico rendeva questi vogatori anche meno timorosi verso le pubbliche autorità.
Foto: archivio di InLibertà.it
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