Felice Orsini caratterizzò l’Italia di fine Ottocento, mettendo al servizio dell’indipendenza e della libertà la sua intelligenza, la temerarietà, ma anche l’incoscienza, il furore, la violenza. Dapprima vicino alla politica mazziniana, se ne distaccò per cercare soluzioni più definitive al problema italico. Nel 1858 attentò alla vita di Napoleone III. Con quell’atto, che costò la vita ad otto persone e lo portò sul patibolo, riuscì, tuttavia, ad attirare l’attenzione dell’imperatore francese e diede il via agli accordi di Plombières.
Parole di fuoco
“Giovani! A voi dedico la succinta narrazione dei fatti e rivolgimenti, dei quali, fin dal 1833, fui testimone e parte; perché conosciate la ragione dell’odio profondo, che deve nutrire il patriota italiano contro il papato, il dispotismo interno, e la dominazione straniera “.
Era il 1857 quando Felice Orsini scriveva queste parole in una sua autobiografia, ancora infervorato dal recente passato di moti rivoluzionari che avevano acceso animi e speranze, che avevano fatto martiri, che avevano liberato Milano e Venezia dagli austriaci, sebbene per poco tempo; che, per qualche mese, avevano consentito la nascita della Repubblica Romana nei territori papalini.
L’ultimo decennio era stato caratterizzato da grandi ideali e da lotte coraggiose contro gli invasori stranieri nell’ardente desiderio di unire l’Italia. Il pensiero risorgimentale, pur differentemente vissuto e teorizzato; il coraggio dei combattenti; le parole infuocate di scrittori e poeti; e, non ultima, la musica di Verdi avevano accompagnato anni di lotte e di passione patriottica. I cori del Nabucco, dei Lombardi, dell’Ernani e di molte altre sue opere erano diventati icone di libertà. Il “Va pensiero” era più di un inno, per gli italiani del tempo, e la cabaletta “Come notte al sol fuggente” in cui si incitano gli ebrei del Nabucco a dare “morte allo straniero” era ben un più di un pezzo d’opera, era un comando. Dopo l’abdicazione di Carlo Alberto, il popolo, coraggiosamente, vergava sui muri “W V.E.R.D.I.”, un acronimo che andava al di là del cognome del compositore per farsi interprete d’una istanza unitaria antiaustriaca: Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia.
Ebbene, in quel decennio di tempeste ideologiche e grandi furori, in ultimo piegati alla diplomazia ed alla politica, Felice Orsini si era mosso da vero rivoluzionario, mai abbandonando la veemenza dei primi anni di battaglia. E di battaglie ne aveva viste molte, così come aveva saggiato ogni altro aspetto di quegli anni rivoltosi: dalla Repubblica Romana del 1849, ai progetti rivoluzionari in Lunigiana ed in Engadina; dalla condanna a morte impartitagli dagli austriaci, cui seguì la mirabolante fuga dal castello di Mantova, alle infiammanti conferenze politiche londinesi, che segnarono il definitivo distacco ideologico ed amicale da Mazzini. Non placò mai il suo animo e fu questo che lo portò a Parigi, dove Napoleone III dal 1852 aveva soffocato in un nuovo impero la giovane repubblica francese. Orsini vedeva in lui il principale responsabile della miserevole condizione italiana: “Esaminando le posizioni politiche di tutti i governi d’Europa, mi sono convinto dell’idea che non c’era che un uomo in posizione tale da consentirgli di far cessare queste occupazioni straniere del mio Paese, e quest’uomo era Napoleone III, che è onnipossente in Europa. Ma tutto il suo passato mi dava la convinzione che non avrebbe voluto fare quello che era il solo a poter fare”. A renderlo ancora più colpevole si ergeva il ricordo delle sue battaglie giovanili in suolo italico e delle sue vane promesse. Durante il regno di Luigi Filippo, infatti, mentre viveva in Italia con la madre ed il fratello, Napoleone aveva partecipato alle prime lotte per l’indipendenza italiana: aveva intrattenuto rapporti amichevoli con molti patrioti, tra i quali Filippo Canuti, Piero Maroncelli e Ciro Menotti; era sceso a Roma con i Carbonari; aveva scritto a papa Gregorio XVI invitandolo a deporre la sovranità temporale; aveva partecipato alla rivolta romagnola, giurando agli amici De Laugier, Gherardi e Bangiolini: “Se un giorno salirò sul trono di Francia, l’Italia sarà”. Pesava quella promessa non mantenuta; e la resa dei conti, per Orsini, arrivò il 14 gennaio del 1858.
In rue Le Peletier, ove allora si trovava l’Opéra, una parata di lancieri si faceva largo tra due file di pubblico festante: l’imperatore Napoleone III e la sua consorte Eugenia si stavano recando a teatro per l’addio alle scene del famoso baritono Massol.
La gaiezza del momento, però, ebbe vita breve: ad un triplice sordo boato seguirono scene di sangue e di tragedia. La vettura imperiale si rovesciò. Napoleone ed Eugenia restarono illesi; il generale Roguet, invece, venne raggiunto al collo da una scheggia e cadde sull’imperatrice, inondando di sangue la sua veste candida. Alla fine si contarono 8 morti e 156 feriti.
Poco prima delle esplosioni l’ispettore Hébert aveva arrestato tal Andrea Pieri, rivoluzionario italiano già allontanato dalla Francia anni prima. Egli celava una bomba, una pistola ed un falso passaporto tedesco. Il tempestivo arresto evitò, dunque, una quarta esplosione.
Nel giro di poco tempo i responsabili dell’attentato furono quasi tutti assicurati alla giustizia: in un piccolo albergo di Montmartre venne arrestato Carlo de Rudio, che si spacciava per uomo d’affari portoghese; le manette scattarono anche per Antonio Gomez, sulle tracce del quale venne raggiunto il sedicente lord inglese di cui Gomez affermava essere il domestico, tale Thomas Allsop, che, in realtà, altri non era se non Felice Orsini, il quale non era riuscito a far esplodere la propria bomba, perché ferito ad una gamba dalla prima esplosione, avvenuta per mano di qualcuno che, fino all’ultimo, Orsini si rifiuterà di denunciare, preferendo addossarsi la sua colpa. Teniamolo a mente, quest’uomo misterioso, poiché torneremo a parlarne. Sfuggirono all’arresto un quinto complice, Simon Bernard, medico della marina francese esule a Londra, nonché i tre inglesi che avevano partecipato alla fase organizzativa pur senza mettere piede in Francia, tra i quali il vero Allsop.
Un lungo elenco di crimini
Il 25 febbraio 1858 Orsini ed i suoi complici comparirono dinanzi alla Corte di Assise della Senna. Il pubblico si accalcava come ad una prima teatrale; molti i posti riservati per le autorità.
Il volto su cui si focalizzò l’attenzione di tutti fu uno solo, quello di Orsini, il più noto e carismatico degli attentatori. Era difeso dall’avvocato Jules Favre, il migliore penalista di Francia, nonché uomo politico di chiara fama, militante antibonapartista, il quale, tuttavia, aveva assunto la difesa non solo per comunione ideologica con Orsini, ma anche su richiesta dello stesso Napoleone. Di questo fatto, contraddittorio e non poco singolare, ne erano a conoscenza solo pochi fedelissimi dell’impero. Sul motivo che aveva mosso Napoleone a garantire la migliore difesa dell’imputato aleggia ancora oggi una densa nube di incertezza. Era ammirazione per il rivoluzionario intrepido, la sua, oppure era interessato ad averlo al suo fianco in un eventuale scontro con l’Austria? Il valore dell’Orsini combattente era indubbio, del resto; inoltre aveva dimostrato d’essere anche una valente spia, la qual cosa rende lecito pensare che fosse a conoscenza di un segreto che Napoleone voleva tenesse per sé. In questo caso lo avrebbe favorito finché fosse stato in grado di parlare, ben sapendo che il suo favore non sarebbe arrivato a risparmiargli la ghigliottina, e, dunque, il silenzio eterno.
L’atto di accusa sembrava una biografia di Orsini: ripercorreva la sua lunga “carriera” di ribelle e rivoluzionario, e fu una perfetta introduzione ai serrati interrogatori della fase istruttoria.
Gomez insistette nel dire d’essere un domestico e di aver creduto fino all’ultimo che Orsini fosse davvero mister Allsop; tuttavia cadde più volte in contraddizione ed emerse chiaramente il suo coinvolgimento diretto nell’attentato, avendo egli scagliato una delle bombe.
De Rubio, invece, tentò di discolparsi puntando sulla povertà e sulla disperazione in cui versava: sull’orlo del pianto disse che non era nella condizione di rifiutare un lavoro che avrebbe assicurato cibo a se stesso ed alla moglie.
Neppure l’interrogatorio di Andrea Pieri brillò particolarmente. Non fornì elementi fondamentali sul fatto se non sue vaghe scuse, tentativi maldestri e poco temerari di discolparsi. Anche il suo passato pesò, ovviamente. Era il più anziano del gruppo e, dunque, aveva partecipato a molte campagne belliche, tra cui quella del 1848 in Toscana. Separato da una moglie francese, aveva incontrato Orsini in Inghilterra, unendosi a lui nel progetto dinamitardo. Figura scialba, dopo tutto.
L’interrogatorio di Orsini, ovviamente, svettò sopra ogni altro e non deluse le aspettative del pubblico: un vero e proprio capolavoro di teatralità ed oratoria politica. Era calmo, lucido, misurato nelle sue parole, con un tono crescente nei punti salienti. Ripercorse egli stesso le tappe “criminali” della sua vita, ma solo per dire quel che l’accusa aveva tralasciato: le motivazioni, i fervori patriottici, l’ingiusto giogo nemico. Non risparmiò nessuno, neppure i francesi, nelle mani dei quali era la sua stessa vita. Mossa autolesionista ma di grande effetto. Raccontò, infatti, di quando fu stilata la tregua tra i francesi ed i combattenti della Repubblica Romana: gli italiani, che fino ad allora avevano valorosamente sbaragliato il nemico, onorarono tanto la tregua da liberare i prigionieri; i francesi, invece, si limitarono a violare i patti: “Come hanno risposto i francesi alla nostra generosità? Hanno sospeso le ostilità per un mese, ma solo per aspettare rinforzi. Allora sono tornati all’attacco, mille contro dieci. Signori! Siamo stati giuridicamente assassinati, il fiore della gioventù italiana è stato immolato”, esclamò Orsini.
Mormorio in aula. Il Presidente lo rimproverò per cotanta offesa, ma Orsini non si piegò. Proseguì a parlare delle sue ragioni, minimizzando la responsabilità altrui per addossarla tutta su di sé. Arrivò ad affermare la totale estraneità dei tre inglesi, che, a sua detta, avevano assemblato le bombe ritenendo che fosse un nuovo tipo di apparecchio a gas.
Dopo lo sfilare di testimoni, tutti dell’accusa, a volte interrotti e corretti da Orsini stesso in un costante rimprovero della Corte a fronte di opposizioni urlate dal Procuratore in un sonoro vociare del pubblico, fu la volta dell’aspra requisitoria del Procuratore e dell’arringa difensiva di Favre, il quale dipinse Orsini come un fervente patriota, un eroe. Parlò di un “voto espresso in un testamento supremo” inviato all’imperatore, uno scritto che chiese al giudice di poter leggere in aula, avendo già ottenuto il permesso di farlo dall’imperatore stesso. Sonoro brusio in aula. Tanta partecipazione imperiale alla difesa dell’imputato stava facendo travalicare l’interesse di Napoleone per Orsini oltre gli argini del segreto di Stato.
La giuria si ritirò per più di due ore ed uscì con la condanna a morte di tutti i congiurati tranne Gomez, al quale vennero riconosciute circostanze attenuanti tali da comminargli i lavori forzati.
I condannati ricorsero in Cassazione. Orsini non avrebbe voluto, ma lo fece per non penalizzare i suoi compagni. Come previsto, la Cassazione respinse il ricorso, confermando la condanna a morte.
Orsini scrisse, allora, una seconda lettera a Napoleone invocando la grazia non per se stesso, ma per i propri compagni. Era una lettera che faceva rabbrividire per il coraggio e l’altruismo che conteneva. Napoleone stesso ne rimase tanto colpito da trasmetterla personalmente a Cavour affinché la pubblicasse sulla Gazzetta Piemontese: quel fervore, quel patriottismo non dovevano andare persi. Subito dopo, l’imperatore, propenso a concedere la grazia ai condannati, riunì il Consiglio Privato, ma molte furono le opposizioni, soprattutto quella dell’arcivescovo di Parigi, cardinale Morlot, ed, alla fine, solo Carlo de Rudio beneficiò di un qualche favore, vedendo commutata la pena di morte in ergastolo.
Il 13 marzo 1858, dunque, Pieri ed Orsini vennero ghigliottinati. Orsini, in quell’occasione, scolpì un’ultima immagine di sé nella memoria di tutti i presenti, richiamando il ricordo dei moti del ’48 che avevano visto italiani e francesi egualmente combattenti per la propria libertà: “Viva la Francia; viva l’Italia” gridò prima che la sua testa venisse recisa.
Due mesi dopo l’esecuzione, come un fiore che germogli sul ciglio di una strada da un seme gettato con speranza ma senza certezze, Napoleone III contattò Cavour, preparando quello che sarebbe stato il convegno di Plombières del 20 e 21 luglio 1858, dove si posero le basi per l’intervento francese in Italia del Nord contro gli austriaci. Il giudizio negativo di Orsini su Napoleone III, però, rimase sospeso nell’aria e l’armistizio di Villafranca dell’11 luglio 1859, a mezzo del quale Napoleone, tradendo le aspettative italiane, si ritirò dalla guerra, di fatto regalando il Veneto agli austriaci, tristemente le confermarono. Pur non volendo essere dinamitardi, non possiamo non concordare con Orsini sul fatto che Napoleone III non fosse meritevole di troppe lodi!
Anni dopo, Carlo de Rudio riuscì a fuggire dalla Caienna e si unì ai Nordisti nella guerra civile americana. Nel 1908, ormai veterano americano, disse che il misterioso italiano cui Orsini aveva affidato una delle bombe che esplosero a Parigi e che lo ferirono alla gamba era Francesco Crispi, ma è notizia che lascia ancora oggi perplessi, poiché, sebbene fosse certa la sua presenza a Parigi nei giorni dell’attentato, Crispi era ancora legato a Mazzini, nel 1858, essendosi allontanato da lui e dal moderatismo solo nel 1860 per unirsi ai Mille di Garibaldi. Certo, era ben possibile che fosse già iniziato, nel silenzio, il suo distacco dal programma mazziniano, cosa che renderebbe coerente la sua partecipazione alla crociata di Orsini, ma la certezza, in questo senso, non è mai stata raggiunta e permarrà un affascinante dubbio sull’identità del misterioso congiurato, delle cui azioni Orsini si addossò la colpa. Il dubbio è spesso parte della storia degli uomini, soprattutto quando diventa storia dell’umanità.
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