Mentre con il passare dei giorni continuano a fioccare cancellazioni e sospensioni di campionati ed eventi sportivi, con gli ultimi esempi illustri delle leghe di calcio inglese e del Gran Premio di Formula 1, ci si interroga su cosa si potrà ancora fare nelle prossime settimane per contenere il contagio, ma anche su cosa si sarebbe potuto fare in precedenza. Alcuni fattori, tra cui l’esitazione di molti organi nazionali ed internazionali riguardo lo stop alle manifestazioni, potrebbero verosimilmente aver dato il loro contributo alla diffusione del virus all’interno dei Paesi e conseguentemente a “trasportarlo” da una zona all’altra.
In effetti, fino a pochi giorni fa il rinvio di diverse importanti competizioni non sembrava nemmeno in discussione, segno del fatto che evidentemente in molti non si erano (o non volevano) ancora rendersi conto della gravità della situazione. La notizia della sospensione della Premier League in Inghilterra e della Bundesliga in Germania è giunta ufficialmente soltanto da alcune ore, così come l’annullamento della prima tappa del mondiale di Formula 1 in Australia, della quale nei giorni scorsi era stato assicurato lo svolgimento (tra i dubbi e lo scetticismo generale) nonostante la positività di un membro del team McLaren.
Discorso simile per quanto concerne le coppe europee di calcio, per le quali la UEFA ha fatto registrare un colpevole ritardo nel decretarne lo stop, permettendo di disputare le gare dei giorni scorsi addirittura con la presenza del pubblico, senza rispettare perciò le indicazioni su distanze ed assembramenti di persone. Tutto ciò ha portato chiaramente a scene che poco hanno a che vedere con la cautela da utilizzare in questo periodo. La festa dei tifosi del PSG fuori dallo stadio, con i giocatori ad aizzare la folla, è uno degli emblemi di quale sia ad oggi la consapevolezza del problema in molte parti d’Europa.
Anche fuori dal vecchio continente le cose stanno cambiando, dopo un periodo di attesa nel prendere provvedimenti chiari e di scarsa attenzione per il problema. Soltanto pochi giorni fa, negli USA, il cestista francese Rudy Gobert rispondeva in conferenza stampa ad una domanda riguardo l’emergenza Coronavirus sorridendo ironicamente, alzandosi e toccando in maniera goliardica tutti i microfoni dei giornalisti (foto sotto) per dimostrare di non essere preoccupato della cosa, prima di uscire dalla stanza senza parlare. Prosecuzione della storia: mercoledì scorso Gobert è stato il primo giocatore della NBA risultato positivo al Coronavirus, “seguito” poi dal suo compagno di squadra Donovan Mitchell. A quel punto anche la più importante Lega di basket del pianeta, per evitare la diffusione del contagio ad altri giocatori e tifosi, ha deciso che non si giocheranno partite per almeno i prossimi 30 giorni, nonostante la NBA stessa sia uno dei primissimi campionati sportivi al mondo per mole di introiti economici provenienti dai media, dagli sponsor e dalla potenza del brand a livello globale.
Proprio il tema economico potrebbe aver rappresentato fin’ora un importante freno alla tempestività dei provvedimenti nelle varie discipline sportive. Gli interessi in gioco sono diversi e vedono coinvolti più soggetti. I contratti come quelli di sponsorizzazione e di diritti TV vengono stipulati con le leghe e le Società generalmente prima dell’inizio della stagione. Per questo motivo l’eventuale riduzione in corso d’opera del numero di partite che saranno disputate può certamente rappresentare un motivo concreto di attrito tra le parti, fornendoci probabilmente l’indicazione del perché ci sia stata tanta esitazione nel sospendere molti eventi.
Fonte foto: corrieredellosport.it
Scrivi