Nei primi anni del secondo dopoguerra, ragazzi più o meno indipendenti decidevano frequentemente di aprirsi al mondo del lavoro, abbandonando gli studi con una piccola dose di istruzione alle spalle; oggi, quel mercato del lavoro, unitamente asfittico ed ermetico sotto la scure della crisi economico-finanziaria, è reso sempre più impermeabile alle velleità di coloro che, finiti gli studi obbligatori, tentano di trovare uno sbocco lavorativo che gli garantisca, se non la possibilità – già data per persa – di emanciparsi e rendersi indipendenti, quantomeno di tutelare le proprie famiglie dagli squilibri monetari infrannuali.
L’unica possibilità, se non si intende crogiolare con lo stipendio dei genitori, è quella di continuare gli studi ascoltando fedelmente l’interesse personale, e magari l’intuito – garantisco, aiuta. E’ quello che ho fatto io: aspirante giornalista con ottimi risultati didattici, ma nessun riscontro lavorativo.
Beppe Severgnini (“Italiani di domani”, Rizzoli 2012) consiglia testa, talento, tempismo, tenacia, tenerezza, tolleranza, terra e totem: otto T e altrettante chiavi per aprire le porte del futuro. L’idea mi ha incuriosito, l’ho letto. E l’ho trovato stimolante, rassicurante, a tratti commovente. Otto suggerimenti partoriti dentro le università, ma che si rivolgono, più in generale, alle famiglie e ai ragazzi – frastornati, smarriti, spesso rassegnati – che si trovano ad affrontare, rispettivamente, investimenti e scelte di vita dirimenti.
Il suddetto, nonché sottaciuto, ostacolo generazionale è stato drenato dall’egoismo, dall’avida voracità di persone incompetenti che hanno prosciugato le risorse – finanziarie e umane – destinate al sostentamento del tessuto imprenditoriale italiano e della società tutta; la stessa classe dirigente si è dimostrata attendista, tendenzialmente oscurantista e implicitamente immobilista alle istanze del progresso e della crescita che vedono nell’istruzione e nel lavoro i presupposti basilari nell’ottica di un rilancio strutturale dell’economia nostrana.
I dati relativi alle nostre università sono la referenza più indicativa: in dieci anni sessantamila studenti in meno; in negativo anche laureati, dottorati, docenti e fondi. Segno più (+) invece per i “fuori corso” e per le matricole che non sostengono alcun esame durante l’anno accademico. L’Ocse ci declassifica rovinosamente al 34° posto su 36 paesi per numero di laureati (19% tra i trenta e i trentaquattro anni); endemico anche il deflusso in uscita di docenti: -22% in sei anni, con outlook negativo. Non si fa nulla per arrestare l’emorragia, anzi: «Il fondo nazionale per finanziare le borse di studio è stato ridotto. Nel 2009 i fondi nazionali coprivano l’84% degli studenti aventi diritto, nel 2011 il 75%».
La morale? Di questo passo, niente lavoro né istruzione. Chi ha le risorse preferisce l’estero; gli altri restino, si buttino e si salvi chi può.
di Andrea Capati
Foto: lanazione.it
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