Ha fatto molto discutere la recente proposta del nuovo presidente dell’Inps Tito Boeri di rendere più flessibile l’uscita dal mercato del lavoro per gli over cinquantacinquenni in condizioni di disoccupazione. Tradotto ai minimi termini: farli andare in pensione prima di quanto previsto dalle attuali norme nel caso si trovassero in uno stato di disagio economico. Alcune risposte, benché “ovattate”, sono arrivate dalla politica: dove trovare le risorse è stata la domanda scontata.
Sul sistema di previdenza pubblica occorre fare un po’ di chiarezza, e per farlo partiremo da come funziona un’assicurazione caso vita privata, assimilabile, da un punto di vista tecnico, alla tanto agognata pensione. Chiunque sottoscriva un simile contratto si troverà a pagare un premio finalizzato a costituire un fondo che, al momento della scadenza del contratto, l’assicurazione restituirà in un’unica soluzione o con rate periodiche. La seconda domanda che dobbiamo porci è: che relazione esiste tra il premio pagato (equivalente sul piano concettuale ai contributi che lavoratori e imprese pagano) e il summenzionato fondo (assimilabile al montante pensionistico che i lavoratori maturano e riceveranno quando si ritireranno dal mercato del lavoro)?
La risposta, in linea di principio, è abbastanza semplice: dalla probabilità di sopravvivenza dell’assicurato alla scadenza e da quanto hanno reso i premi che, nel frattempo, l’assicurazione ha investito in attività reali o finanziarie. In buona sostanza, come prescrive il codice delle assicurazioni, la cui applicazione è rigidamente “guardata a vista” dall’Isvap (l’istituto di vigilanza delle assicurazioni), ogni volta che un’azienda assicurativa riceve un premio si tratterrà una minima quota per coprire i propri costi e realizzare un margine di profitto e il resto (oltre il 90%) dovrà accantonarlo a una riserva, detta riserva matematica, che deve essere adeguatamente coperta dagli attivi dell’azienda stessa. Che significa, in termini meno tecnici? Che se do mille euro di premio, venti saranno trattenuti dall’assicurazione e gli altri novecentottanta investiti in immobili, titoli, liquidità. Quando il mio contratto scadrà, quanto dovrò ricevere sarà una parte del denaro, investito a vario titolo, effettivamente nelle mani dell’assicurazione.
Questo meccanismo a livello di previdenza pubblica semplicemente non esiste. Certo, il calcolo della riserva, che possiamo chiamare valore teorico di quanto maturato dal singolo “assicurato” viene fatto con la stessa cura che ci mettono i privati, ma gli attivi, i soldi “veri” che dovrebbero aver “preso la forma” di immobili, titoli di stato, obbligazioni … semplicemente non esistono. L’Inps, tanto per citare l’ente più importante, non usa i contributi di ieri, nel senso di ricevuti e accantonati per i singoli lavoratori ora “ritirati”, per pagare le pensioni di oggi. Al contrario, usa i contributi che riceve mensilmente per pagare le pensioni di oggi. Il mancato accantonamento, peraltro, implica anche che i contributi versati non sono effettivamente remunerati attraverso un processo di investimento. Esemplifichiamo il concetto: diecimila euro di contributi versati da un lavoratore nel 2000 al 4% annuo oggi dovrebbero essere pari a circa diciottomila euro nelle casse dell’Inps. In realtà, come detto in precedenza, sono pari a zero, perché impiegati per pagare le pensioni di quell’anno.
La piramide demografica è cambiata e, senza alcun accantonamento, avere oltre sedici milioni di pensionati e circa ventiquattro milioni di lavoratori ha innalzato enormemente le difficoltà dell’ente previdenziale per antonomasia e reso, nel tempo, sempre più insostenibile il modello italiano.
Tradotto in cifre: l’Inps incassa ogni anno circa duecento miliardi di contributi e ne paga trecento in previdenza. Da dove vengono gli altri cento, si domanderà il lettore. Semplice, dalla fiscalità generale: vengno stornati, di fatto, dalla copertura potenziale di altre spese, come sanità, scuola, investimenti in infrastrutture.
Da queste semplici considerazioni discendono una serie di conseguenze. La prima è che in assenza di fondi “reali” costituiti a partire dalle posizioni contributive del passato la dinamica demografica (leggi innalzamento dell’età media e progressivo invecchiamento della popolazione) ha pesato molto di più sulla pelle dei lavoratori. Essi, in futuro, potranno ritirarsi con meno risorse (pensioni) in proporzione a quanto versato e dovranno lavorare più a lungo di quanto effettivamente i cambiamenti demografici avrebbero richiesto se ci fosse un’oculata gestione del sistema pensionistico.
Il secondo è che la tendenza in atto alla svalutazione salariale e la permanenza a livelli elevati del tasso di disoccupazione costituiscono fattori critici che tendono a rendere sempre meno sostenibile questo modello. Se certi tend dovessero peggiorare, si renderebbero necessari ulteriori drastici interventi. Insomma, altre “riforme”.
di Joe Di Baggio
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