E’ in scena al teatro Quirino di Roma Il Padre di August Strindberg. Regista e protagonista è Gabriele Lavia.
Assistere ad una simile rappresentazione è un vero privilegio per chiunque ami il teatro di prosa.
Il dramma rappresentato è tipicamente ottocentesco, eppure ha in sé una modernità tangibile che Lavia ha saputo abilmente mettere in scena e che traspare ovunque, nella recitazione come nell’allestimento scenico e persino nelle pose plastiche degli attori, quasi pittoriche, che, di quando in quando, rappresentano un fermo-immagine teso a sottolineare l’intensità del dramma.
Il Padre ha sin da subito rappresentato un’alta immagine del contrasto personale di Strindberg con il vivere sociale, con il sistema costituito; un’eco robusta della critica rivolta alle convenzioni del suo tempo, soprattutto alla famiglia borghese, al matrimonio, che, nella sua esperienza personale, è traumatico, disgregante. Egli descrive, dunque, uno spaccato tragicomico della società in cui vive fino all’epilogo drammatico; e vuole farlo con il distacco dei naturalisti francesi, sebbene i naturalisti non vogliano la sua compagnia. E’ lo stesso Émile Zola a negargli fermamente la comunanza con il Naturalismo: apprezza l’opera, ma non vi riscontra quell’obiettività quasi scientifica che dovrebbe interporsi tra Autore e Personaggio, tra penna e storia; un’obiettività che, invece, separa, o, meglio, vorrebbe separare lo stesso Zola dalla sua Teresa Raquin, o Gustave Flaubert dalla sua Emma Bovary. In effetti Strindberg descrive un’intricata vicenda familiare nella speranza di rimanere alla finestra, di apporre un filtro tra se stesso e le sue maschere, ma fallisce, esattamente come fallisce Manzoni a volersi distaccare dalle vicende che si dipanano nel romanzo storico. Difficile celare le passioni, la rabbia, la paura. L’autore entra nella storia con tutto il suo bagaglio di esperienze di vita contraddittorie ed a volte oscure. Niente di più affascinante.
A dirla tutta, l’opera di Strindberg non sembra inquadrabile neppure nell’Esistenzialismo di Kierkegaard, nell’ambito del quale, invece, alcuni critici l’hanno collocata, anche se, in questo caso, qualcosa c’è che pone Strindberg in un imprecisato punto iniziale di quel segmento di tempo e di elaborazione letteraria e filosofica che approderà a Sartre. Egli, infatti, ha, in nuce, tutta la potenza oscura dell’esistenzialismo sartriano, che emerge nella sua protesta, nella sua rivolta, nel suo dolore, in quel suo sguardo al mondo dell’uomo e della donna che gli varrà l’accusa d’essere misogino.
Il Padre è un’opera di letteratura che potrebbe trovare rappresentazione pittorica in un devastante evento naturale: una colata lavica, un magma incandescente che travolge tutto e tutti. A cominciare dal protagonista, che lo stesso Strindberg spacca in due sin dall’inizio: non ci dice il suo nome, infatti, se non incidentalmente; è un capitano di cavalleria e come tale lo annovera tra i personaggi. E’ il Capitano che ha le battute, nel suo copione. Diventa Adolf solo nelle parole di chi lo conosce; diventa Adolf solo nell’intimità, un’intimità che lo rende vulnerabile, instabile e l’instabilità dell’uomo si riverbera nella storia. Instabile è anche il suo matrimonio con Laura. Entrambi segnati da una comunicazione inesistente e da un sottile, amaro, doloroso gioco di potere, entrambi imprigionati nell’unico imperativo che li domina, sopraffare l’altro, trascorrono un’esistenza di conflitti latenti. Vivono con la madre di Laura, invadente e critica nei confronti del genero, con la vecchia tata di Adolf, che lo tratta ancora come un bambino; frequentano un prete, il fratello di Laura, moralista e distaccato al contempo; danno ospitalità al nuovo medico del paese, debole e credulone, e a due giovani soldati. Hanno una figlia, Berta. La madre vorrebbe farla diventare pittrice in modo da tenerla in casa, accanto a lei, “Figlia mia, tutta mia” dirà alla fine; il padre, invece, vorrebbe mandarla in città a studiare da maestra. La legge è dalla sua parte. Lui è l’uomo, lui è il padre; a lui spetta la decisione. E se non fosse il padre? Laura instilla il dubbio che, come un tarlo, inizia a scavare corridoi di ossessione nella mente di Adolf. Tutto ciò lo porterà alla pazzia? E la sua pazzia sarà esattamente ciò che Laura vuole per poter finalmente comandare in casa propria? Mi torna in mente Il sospetto di Alfred Hitchcock. C’è una connotazione di cinismo, di egoismo, ma soprattutto di sottile crudeltà nel portare qualcuno alla pazzia, nel buttare acido sulla sua anima e corroderla insieme alla mente. Il dramma si tinge di giallo, dunque; diventa preludio di un assassinio psicologico.
Laura è una Filumena Marturano al contrario. “Hann’ ‘a essere eguale tutt’ e tre” dice la Filumena di Eduardo De Filippo, nella speranza che suo marito accetti anche i due figli che non gli appartengono; nell’ottativo disperato di far sì che li consideri suoi, che li ami al pari di quello che porta il suo stesso sangue e di cui gli nega di conoscere l’identità. Filumena esercita il proprio potere dando valore, se non all’uomo in sé, che schiaccia nel dubbio e nel silenzio, al suo essere padre, tanto da volerlo tale anche per gli altri figli. “Hann’ ‘a essere eguale tutt’ e tre”. Nella pièce di Strindberg, invece, al padre si nega la paternità: “Tu non sai se sei il padre di Berta. Quello che nessuno può sapere, neppure tu lo sai. Come puoi sapere che io non ti abbia tradito?”. Laura esercita il suo potere annientando sia l’uomo, sia il padre. Un disfacimento totale.
Friedrich Nietzsche definì Il Padre “un capolavoro di dura psicologia”. Niente di più vero. Si tratta di un gioco di potere portato all’estremo, che affonda le proprie radici nel passato remoto, nell’infanzia, negli archetipi, nel conflitto dell’uomo con se stesso, Adolf e Capitano, nel distorto rapporto tra uomo e donna, ed, in questo, le scene curate da Alessandro Camera interpretano in modo sublime l’essenza del dramma. Nel primo atto i tendaggi rossi che rivestono anche il pavimento assomigliano alla colata lavica dei sentimenti che via via si dipanano nella vicenda; sono immagine di un equilibrio di vita solo apparente. Anche i mobili sottolineano la precaria stabilità familiare: sono storti rispetto al piano di appoggio. La scrivania, le poltrone, il divano, la pendola, sembrano tutti avere una o due zampe più corte o poggiare su dossi. Nel complesso, è come se fosse passato un uragano e li avesse dissestati, come se un terremoto avesse smosso il pavimento. Il terremoto della vita, senz’altro; il terremoto dei sentimenti, del matrimonio, della manipolazione estrema e crudele. Tutto è storto tranne il baule in cui Adolf conserva brandelli del suo passato e delle sue passioni, dei suoi studi di astronomia; attorno al quale ha sistemato i suoi libri, la forza della sua scienza. Quello è solido, assolutamente inamovibile, come è lui quando riesce a distaccarsi dall’esistenza borghese e familiare in cui è imprigionato. Nel secondo atto i mobili spariscono, tutti tranne il baule, che rappresenta il ricordo di ciò che Adolf era e non è più e, insieme ai libri, diventa strumento destabilizzante esso stesso. I tendaggi rossi rivestono interamente pareti e pavimento. Adolf è al centro della scena, solo, assolutamente solo anche quando entrano gli altri; solo, perché ripiegato su se stesso, avvolto nel suo dramma che lo riporta indietro nel tempo. La tata lo accudisce e nell’accudirlo lo imprigiona. Le tende, a questo punto, ricordano un utero sanguinante in cui il protagonista si perde, chiudendosi sempre più, fino ad assumere posizione fetale. Nascita e morte si sfiorano. Con l’attacco alla moglie ed al suo ruolo di donna, Adolf aggredisce la madre, figura che a Laura egli ha sempre sovrapposto; si rifugia, però, tra le braccia della tata, un’altra madre. E come si concilia l’essere giovane figlio con l’essere padre? Attraverso lo strappo, la lacerazione, la rovina del suo ruolo paterno ed il suo ritorno malato all’infanzia.
Il protagonista de Il Padre è quasi fuori dalla storia, pur essendo immerso nel dramma; è dramma egli stesso; è interiorità tormentata. Gabriele Lavia vola altissimo. La modulazione della voce, le pause, il suo riempire la scena, ogni angolo della scena, anche quello buio, invisibile, dimenticato. Si muove imperioso e sicuro di sé, quando è il Capitano: marito, padre, militare. Poi cambia. Si siede sul suo baule pieno delle parti più preziose di sé, delle sue certezze, permettendosi di guardare le stelle con il telescopio e di uscire dagli angusti limiti della sua esistenza, e lì assume una posa plastica, un immobilismo loquace. Lo stesso che ritroviamo nel momento in cui Laura si siede in terra, accanto al marito e gli consente di poggiare la testa sul suo grembo, madre amorevole e sposa crudele di un piccolo Edipo sofferente, Iside ed Ecate, donna foriera di vita e di morte; lo stesso che segna la fine del primo atto, lasciando che il pubblico immagini, o, meglio, senta nel profondo le parole non dette. Sì, perché anche quelle urlano, in scena, e sono tutti bravissimi a farle urlare, affiancandole ai dialoghi magnificamente intessuti nella trama.
Federica Di Martino è una meravigliosa Laura, con il suo incedere lento, elegante e gelido, il suo parlare profondo quasi apatico, le sue lunghe pause, come se certi propositi appesantissero il corpo e la voce, oltre che l’anima. Giusi Merli è la tata, madre a metà, madre fino a che il limite delle sue convinzioni lo consente e, quindi, preda della sordità più ostile alle ragioni del suo Adolf, del “suo bambino”. Anna Chiara Colombo è l’amata figlia, la contesa figlia, l’oggetto di un amore malato dal quale finisce per essere annientata: senza un padre, senza un futuro; lì, in quella casa, gigantesca casa sempre in penombra. E, poi, ci sono Gianni De Lellis, Michele Demaria, Ghennadi Gidari, Luca Pedron, bravissimi tutti, ognuno nel suo essere una parte di un unico uomo, la parte religiosa e, tutto sommato, indifferente persino ai dettami della Chiesa, la parte scientifica, generosa ma facile vittima della manipolazione, la parte militare, giovane ed energica ma priva di troppo pensare. Nel dramma di Strindberg le donne hanno la loro definita personalità: madri o figlie, ma distinte le une dalle altre. Anche il Capitano è intero, salvo poi, lasciarsi disgregare come Adolf. Gli altri uomini, invece, sono figure complementari l’una all’altra, parti di un tutto, esattamente come Strindberg stesso era: scrittore, scultore, fotografo, docente, giornalista, marito, padre, saggio e stolto, impaurito e coraggioso, sano e malato. Gli uomini che circondano Adolf, dunque, animano un regno di contraddizioni, cristallizzano diverse parti di un sé che altri non è se non Adolf stesso. Non è per niente facile far sì che un coro di tante diverse voci riesca a parlare all’unisono con intensità, senza trascurare l’unicità di ciascun personaggio.
Questa pièce è un trionfo di bravure.
Quando ho acquistato il biglietto, sapevo che stavo acquistando una promessa. Gabriele Lavia lo è sempre e lo sono gli attori ed i tecnici che hanno lavorato a questo spettacolo. La promessa, come sempre, è stata mantenuta.
di Raffaella Bonsignori
Ringrazio sentitamente gli attori Federica Di Martino, Ghennadi Gidari e Luca Pedron per i lusinghieri messaggi che mi hanno mandato dopo aver letto questa mia recensione. E’ sempre un piacere scrivere di teatro, per me. E’ facile farlo quando è scritto con la T maiuscola!