Guerra fredda. Diceva Karl Marx che la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Ci si chiede se questo assunto possa applicarsi anche alla Guerra fredda, cioè la contrapposizione politica, ideologica e militare sorta tra il 1947 e il 1991 tra le due principali potenze vincitrici dalla seconda guerra mondiale. Premesso che in questo caso la tragedia ha avuto un lieto fine, cioè il crollo del comunismo, oggi uno dei protagonisti è cambiato. Non è più l’Unione Sovietica (o quanto meno la Russia) a contrapporsi agli Usa, bensì la Cina.
Non siamo comunque noi a rievocare oggi i fantasmi del secondo dopoguerra. Lo ha fatto pochi giorni fa in conferenza stampa il ministro degli Esteri cinese Wang Yi. A margine dell’annuale seduta comune delle due camere del parlamento cinese. “Alcune forze politiche negli Stati Uniti stanno prendendo in ostaggio le relazioni sino-americane e cercano di spingere i due Paesi sull’orlo di una cosiddetta “nuova Guerra Fredda”, ha detto il ministro cinese.
Guerra fredda anziché globalizzazione, a chi conviene
Così come in Italia, i toni vanno prima letti in chiave di politica interna, per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da problematiche più attuali. Probabilmente, la crisi economica conseguente all’epidemia Covid-19. Oggettivamente, però, è la prima risposta cinese ai reiterati attacchi subiti negli ultimi mesi da Donald Trump a dal suo Segretario di Stato Mike Pompeo. Sullo sfondo, inoltre, non può non esserci il dissenso della popolazione di Hong Kong, abilmente fomentato dagli Stati Uniti, anche se maldestramente sorto e gestito da Pechino.
Dall’altro lato, però, Wang Yi ha lanciato toni concilianti, parlando di “un futuro condiviso” tra le due potenze. E’ lo slogan con il quale Pechino tenta di imporre il proprio concetto di globalizzazione del pianeta. Insomma, la si rigiri come si vuole, il tema centrale di questa presunta “seconda guerra fredda” non riguarda le grandi ideologie, i diritti umani o un’agognata rivoluzione proletaria. Come diceva Bill Clinton: «It’s the economy, stupid!».
Ce ne sarebbe abbastanza, insomma, per dare ragione a Karl Marx, catalogando la presente “guerra fredda” tra Usa e Cina, semplicemente come una “farsa”. Questo non solo perché, dopo sole 24 ore, il Ministro degli Esteri cinese ha ridimensionato le sue dichiarazioni. Ma soprattutto perché una nuova guerra economica, sia pur “fredda” quanto si vuole, oggi non converrebbe a nessuno.
Un percorso di interconnessione tra economie in atto da quarant’anni
Le statistiche, comunque, ci danno un quadro chiaro del fenomeno oggi in atto. Negli ultimi anni la dipendenza delle industrie occidentali da quella manifatturiera cinese è costantemente aumentata. La sua quota sul totale mondiale è più che raddoppiata dal 2004. Consideriamo, infatti, i tre paesi più industrializzati del mondo. Nel 2015 l’industria statunitense dipendeva dai semilavorati cinesi il 4,5 % in più rispetto al 2009. Quella tedesca il 3,2 % e quella giapponese il 6,3 % in più.
La maggior parte di questa produzione serve alle fabbriche americane, asiatiche ed europee per realizzare beni finiti da vendere sul mercato o le componenti di altri prodotti che saranno assemblati altrove. Di contro, la dipendenza cinese dai prodotti stranieri è rimasta stazionaria.
Questo processo, tuttavia, ha fatto comodo a tutti e sono state proprio le potenze occidentali ad accelerarlo. Si pensava che liberalizzando i commerci con la Cina, questa si sarebbe liberalizzata anche politicamente, avviandosi verso la democrazia. Questo, per il momento, non è ancora avvenuto. Inoltre , dopo la crisi economica del 2008 e quella attuale da coronavirus, l’opinione pubblica americana si sta chiedendo: «dov’è finita la nostra industria?» Trump ha prontamente risposto: «In Cina!»
La Guerra fredda che non ci sarà.
In realtà l’economia cinese e quella occidentale sono naturalmente interconnesse. Gli scambi tra loro sono aumentati esponenzialmente negli ultimi quindici-venti anni ma le basi sono state poste già quarant’anni fa. Adottare oggi nuove politiche miranti a restringere l’import-export e a smantellare catene globali già esistenti può avere seri contraccolpi sia a breve e sia a lungo termine.
Personalmente, non ci sentiamo di condividere lo scenario proposto da Giuseppe Gabusi, docente di economia all’Università di Torino. L’economista torinese ipotizza una riformulazione del concetto di globalizzazione, nei prossimi anni. Sul palcoscenico non reciterebbero più soltanto Usa e Cina. I primi nel ruolo di attore-regista e la seconda come fabbrica del mondo.
Prevede invece un’economia mondiale tripolare basata su tre macro-aree: Asia orientale, Stati Uniti ed Europa (forse allargata alla Russia). L’import-export sarebbe soprattutto orientato all’interno delle tre macro-aree. In ogni caso, anche se Gabusi avesse ragione non sarebbe una tragedia. Ma, di certo, nemmeno una farsa.
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