Anche le leggi festeggiano il compleanno? Perché no, specialmente quando la loro nascita ha dato vita a norme innovative che hanno profondamente modificato il costume sociale, come accadde con il sofferto percorso legislativo che – il 1° dicembre 1970 – introdusse in Italia il diritto di sciogliere il matrimonio.
Le “celebrazioni” giuridiche in forma di convegni virtuali e webinar, principalmente tra addetti ai lavori (avvocati, magistrati, notai e studiosi) sono ancora in corso e dureranno per tutto il mese di dicembre, ove – tra rievocazioni e ricordi di un periodo che visse grandi manifestazioni popolari studentesche e femministe – viene oggi rievocato il raggiungimento del doppio importante obiettivo, ovvero il diritto di riottenere libertà di stato civile con possibilità di poter passare a nuove nozze e la qualificazione formale della moglie nel contesto della famiglia come titolare degli stessi diritti del marito.
Allora sparirono istituti vecchi e superati, tra cui la “dote” che ogni sposa avrebbe dovuto garantire allo sposo con gran sacrificio per la famiglia d’origine di lei.
Sparì dalle leggi il termine “adulterio”, sostituito dalla “violazione degli obblighi morali e materiali”, ove all’onta grave della “colpa” si sostituì il più leggero “addebito” della separazione finalizzata al divorzio, per far penetrare il convincimento sociale che la fine dell’amore deve consentire di poter tornare liberi da un matrimonio che non funziona più e poter così anche tentarlo di nuovo con altre persone.
Ma nel frattempo, cosa è accaduto realmente in questo mezzo secolo di difficile adattamento sociale degli italiani ad una legge così delicata che ha travolto la stabilità consolidata degli istituti familiari?
E soprattutto, cosa è realmente cambiato da quando la coppia si poteva soltanto separare perché il vincolo matrimoniale era legalmente indissolubile?
L’unico dato certo è che, da sempre, una volta finito l’amore, gli interessi in gioco restano quelli di natura economica e delle complicanze gestionali dei figli fino al raggiungimento della loro indipendenza economica; in particolar modo, ancora si discute sulla natura assistenziale dell’assegno di divorzio a favore del coniuge più debole che, in percentuali ancora troppo elevate, continua ad essere la parte femminile del rapporto.
Anche i tempi di definizione delle procedure di divorzio congiunto sono stati progressivamente accorciati nel tempo: originariamente occorreva aspettare cinque anni dalla data di separazione legale, poi tre anni, fino ai recenti sei mesi, potendosi oggi rivolgere anche direttamente agli uffici anagrafici senza dover necessariamente transitare dal Truibunale.
Più complessa è la questione delle separazioni e dei divorzi giudiziali, ove – rispetto ad un tempo – l’abbandono del tetto coniugale non costituisce più un fatto di reato, anche se il giudice ne tiene comunque conto ai fini delle decisioni economiche in capo a ciascun coniuge e in special modo se si è in presenza di figli minori; rispetto ad un tempo, ove i figli venivano sistematicamente affidati in via esclusiva alla madre, grazie a una legge del 2006, i bambini vengono comunque affidati per legge ad entrambi i genitori, i quali debbono paritariamente collaborare per il loro benessere e garantire loro sia la presenza fisica costante che il supporto psicologico-educativo in via continuativa.
Dunque, se è pur vero che mezzo secolo costituisce un periodo decisamente lungo per l’adattamento sociale ad una legge, è altrettanto vero che le dinamiche interconnesse tra affetti ed affari rappresenteranno sempre un mistero per la coppia che evolve nel tempo: i numerosi ritocchi che le legge sul divorzio ha ricevuto nel corso degli anni hanno contribuito all’accettazione sociale della crisi coniugale irreversibile in un paese come l’Italia, ove l’istituzione matrimoniale riveste ancora un’importanza straordinaria in ragione della sacralità, anche civile, della famiglia intesa sia in senso stretto come nucleo familiare, che in senso lato e cioè come legame parentale in senso istituzionale.
Per effetto delle interpretazioni giudiziarie sui singoli casi, i Tribunali hanno potuto identificare nel tempo i punti nevralgici più delicati, specialmente quelli identificativi dei mutamenti sociali, così contribuendo ad individuare i punti salienti idonei a definire i corretti standards applicativi della stessa legge.
Il positivo aumento dell’occupazione femminile ha reso possibile la diminuzione del contenzioso coniugale grazie alla progressiva indipendenza economica delle mogli ed anche le persone gay possono divorziare con gli stessi criteri in caso di scioglimento dell’unione civile istituita con una legge del 2016.
Un aspetto sul quale invece l’Italia resiste è quello ostativo all’introduzione dei patti prematrimoniali; del resto, il matrimonio non è propriamente un contratto e peraltro già esistono nel sistema giuridico le modalità convenzionali idonee a programmare e regolamentare in via preventiva la vita patrimoniale della futura famiglia.
Non tutto si può infatti prevedere in termini economici al “momento del sì”, che rappresenta invece un atto di amore misto a fiducia incondizionati in ogni coppia che si rispetti; del resto, l’Italia è (e sempre resterà) un paese di stampo sentimentale, ove l’atavico desiderio di formare la famiglia tradizionale non lascia spazio alla razionalità per le valutazioni economiche, almeno fino a quando non cominceranno le prime contestazioni che – a dispetto di quanto non si creda – sono spesso risolvibili in maniera “indolore” e non contenziosa.
Così, per concludere, ricordando l’ironico paradosso di Groucho Marx secondo cui “Il matrimonio è la principale causa del divorzio”, si può serenamente affermare che nessuno potrà mai biasimare il primo per il solo fatto di temere il secondo, se non trova dentro di sé, almeno una volta nella vita, il coraggio di “provare per credere”.
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