A partire dalla nascita del colore il cinema ha visto progressivamente e fisiologicamente diminuire il numero di film girati in bianco e nero, fino alla pressoché totale sparizione di questa tipologia di pellicole. A maggior ragione possiamo desumere che le eccezioni siano quindi ancor più significative, a partire da una scelta ragionata del regista e delle produzioni. In alcuni casi, soprattutto quelli di film indipendenti o di quelli amatoriali, la scelta del bianco e nero è spesso dettata da ragioni economiche, ossia di ristrettezza del budget a disposizione. Ma nella maggior parte delle pellicole in b/n si tratta di consapevoli decisioni stilistiche, funzionali alla struttura narrativa dell’opera e alle scelte poetiche del regista. Se alcuni film come il recente “300” (2007) e “Sin city” (2005) più che per il bianco e nero hanno optato per forti viraggi che caratterizzano quasi interamente le opere, in altri si è deciso (interamente o per lunghi tratti) per il b/n classico: si pensi a “City of life and death” di Lu Chuan (2009), ad “Intrigo a Berlino” di Steven Soderbergh (2006) o a “Good night, and good luck” di George Clooney (2005), a “Toro scatenato” di Scorsese (1980) o a “Schindler’s list” (1993), dove l’ambientazione certamente ha favorito l’adozione di un filmato che si confacesse al periodo storico oggetto della narrazione, ma anche ad altre pellicole, in cui la scelta del bianco&nero è meno ovvia, come “Angel-A” (2005) di Luc Besson, “Coffee and cigarettes” di Jim Jarmusch (2003), “Memento” (2000) di Christopher Nolan, “Pleasantville” (1998) di Gary Ross, solo per citarne alcuni. In questi ultimi casi non si tratta quasi mai di un vezzo da parte del regista, ma al contrario il bianco e nero è la diretta conseguenza delle scelte poetiche attuate in fase di ideazione: in “Memento” è un uso legato alla intricata costruzione sintattica della sceneggiatura, in “Pleasantville” deriva da una scelta di una vera e propria poetica dove l’opposizione bianco e nero/colore è centrale nell’economia della vicenda, in “American History X” (1998) di Tony Kaye è un uso giustificato dall’ampio ricorso alla tecnica del flashback, mentre in “The addiction” (1995) di Abel Ferrara le ragioni rimandano all’ambientazione semi-metafisica del film. Il bianco e nero è tutto fuorché passato alla storia e continua a vivere, seppure apparendo con frequenza ridotta, nel suo prestarsi ad un utilizzo sempre più meditato e non semplicemente estetico, né figlio di suggestioni nostalgiche, ma trovando la sua giusta collocazione nella cinematografia contemporanea.
Simone Di Conza
Foto: dal film “City of life and death” di Lu Chuan (2009)
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