L’Epoca Vittoriana ci rimanda alla memoria usi e costumi bizzarri, che di fatto segnarono il passaggio alla cosiddetta vita moderna. Dalle macabre fotografie “post mortem” descritte in un recente articolo, alle stravaganti cure per malati di mente, i pionieri dell’epoca vittoriana, non perdevano mai l’occasione per lanciare nuove tendenze o improvvisare soluzione alternative.
I manicomi istituiti a quell’epoca ne sono un esempio. Se nell’immaginario collettivo questi luoghi di cura non evocano niente di piacevole, pare che nell’Inghilterra di fine ottocento essi fossero l’emblema stesso della sofferenza inflitta ai poveri malcapitati.
Nella fase iniziale, i malati di mente venivano curati presso le proprie abitazioni, nei casi più gravi invece venivano incatenati alle pareti rosse dei manicomi, uno su tutti quello di Bedlam o St Bethlehem’s Hospital, un manicomio risalente al1200 che ancora oggi è specializzato in salute mentale e si chiama Bethlem Royal Hospital.
Secondo lo Scienze Museum di Londra, le condizioni erano inumane e i pazienti venivano normalmente picchiati e torturati. Addirittura si poteva pagare un biglietto per vedere i malati, passatempo che all’epoca era di gran voga.
La Library di Wellcome
A documentare con estrema perizia le stranezze adottate all’interno delle strutture fu l’imprenditore del Winsconsin Henry Solomon Wellcome che a cavallo tra il XIX ed il XX secolo iniziò a collezionare libri e artefatti sull’argomento e su “temi ancillari come l’alchimia, la stregoneria, l’antropologia e l’etnografia”, come riportato dal New York Times.
Wellcome riuscì a recuperare almeno un milione di reperti (consultabili presso la Wellcome library) tra cui “un frammento di pelle prelevata dal corpo del filosofo del Diciannovesimo secolo Jeremy Bentham, alcuni soffietti tubulari usati per far riprendere i sensi soffiando fumo di tabacco nel retto, lo spazzolino di Napoleone, amuleti provenienti da Sumatra e i mocassini di Florence Nightingale.”
Dagli archivi risulta ad esempio che nel manicomio di Ticehurst, inaugurato nel 1792, i dottori disponevano di catene con cui legare i pazienti e prestavano attenzione particolare all’abitudine alla masturbazione.
Particolare attenzione era rivolta inoltre all’isteria femminile, tanto che i medici “avevano il potere nel manicomio come un padre sulla famiglia.” Nell’archivio di Wellcome si legge di una donna imprigionata nel 1876 che continuava a urlare “non sono stata io”, oppure “non devi uccidere.” La donna affermava che c’era qualche presenza diabolica all’interno delle mura.
Nell’agosto del 1877 la poveretta “iniziava ad essere rasserenata dalla musica” e partecipava alle lezioni di canto, ma ricamando invece di cantare. Verso la fine del 1878 pare che si fosse calmata anche se continuava a parlare di presenze demoniache. Attrezzi e metodi di tortura
Attrezzi e metodi di tortura
Nel XIX secolo i manicomi si riempirono e fu necessario ricorrere a metodi meno ortodossi per curare i pazienti, tra cui l’isolamento, le camicie di forza ed il bromuro. Nel XX secolo si iniziarono a praticare terapie elettroconvulsive e lobotomie, oltre ad altri metodi alquanto bizzarri.
Uno di essi consisteva nell’immobilizzare i malati con la camicia di forza su una branda. Sulla loro fronte poi veniva posizionato uno straccio bagnato. Inutile dire che si trattava solamente di una tortura. Frequente era pure la trapanazione del cranio da svegli, pratica risalente all’età Mesolitica. Ulteriore prova della disumanizzazione dei pazienti sono dei ritratti in cui al posto dei nomi dei pazienti venivano indicate le condizioni mentale diagnosticate.
di Simona Mazza
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