Il burqa visto da un bambino

In questi anni, molte sono state le occasioni in cui l’argomento del velo sul volto delle donne di origine islamica è stato oggetto di  critiche, per ragioni di sicurezza; ma anche per episodi legati alle reazioni di paura dei bambini. Tra i vari episodi, il  più recente è quello verificatosi all’asilo di Sonnino, in provincia di Latina, dove una mamma che accompagnava il figlio a scuola; ma con il volto coperto, ha spaventato i piccoli allievi. Tuttavia, che di burqa o di niqab si tratti, l’effetto di paura rispetto  al copricapo che lascia libero solo lo sguardo, è nei bambini esclusivamente prodotto dall’impossibilità di vedere per intero il  volto di chi gli sta di fronte. Un timore che prescinde  totalmente dai condizionamenti che possono generare le opinioni degli adulti in merito; o dai canonici colori scuri che caratterizzano questo capo d’abbigliamento; ma che sopraggiunge nel momento in cui l’unico vero canale di riconoscimento e di comunicazione con l’altro, simile a sé, viene negato. Un’apprensione che non ha nulla a che vedere con il diverso tipo di etnia, né con il colore della pelle;  o con i tratti somatici diversi; quanto piuttosto con l’espressività del volto, essenziale elemento di comunicazione specie tra persone che non si conoscono. Un volto può rassicurare nel sorriso, può trasmettere un senso di positività, può manifestare vicinanza nella mimica, può svelare già gran parte di se stesso all’altro. Costituisce in breve il mezzo fondamentale e universale per stabilire un contatto fra gli uomini. Se ci si sofferma a riflettere, quando un bambino nasce, durante i primi mesi di vita la prima cosa che riconosce, e a cui risponde attraverso il sorriso, è proprio il volto dell’altro, della mamma, del papà, dei fratellini. Questo stesso sorriso lo elargisce in seguito, e a distanza di pochi mesi, anche a volti sconosciuti, di cui comunque a suo modo ne interpreta i lineamenti, sino a giungere ad una fase di preferenza, in cui la sua comunicazione che per tutta la vita  continuerà ad avvenire sempre in base all’immagine del volto, diverrà decisamente selettiva. Ecco allora motivata l’ansia dei piccoli nel non poter guardare l’altro in viso, non poterlo valutare, né comunicare con lui attraverso le espressioni che lo caratterizzerebbero in quel particolare momento d’incontro fra sconosciuti. Nella preclusione posta da un  velo ad un primo approccio che possa accompagnare alla conoscenza di un altro simile, per il quale va comunque e sempre insegnato il rispetto, per lingua, religione, abitudini e provenienza diversi, ponendo al bambino, questi criteri di appartenenza, per lui del tutto nuovi, non come ostacoli al riconoscimento; quanto  come reciproco arricchimento culturale.

Simona Santanocita

Foto: blog.graziamagazine.it

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