Con la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma si chiude con l’assoluzione dei medici dell’Ospedale Pertini il secondo grado del processo per la morte di Stefano Cucchi.
Questa sentenza di assoluzione ha scatenato le ire dei familiari di Cucchi che da molti anni accusano sia la Polizia Penitenziaria che i medici del Pertini di aver “assassinato” il giovane.
Nulla da eccepire se una famiglia chiede di capire quali siano state le cause del decesso di un loro congiunto, anzi, ma in questo caso questa richiesta sembra essere stata ampiamente strumentalizzata per ben altri fini.
Il caso di per sè si è presentato complesso, perché ha coinvolto numerosi soggetti, che partendo dall’arresto di Cucchi, operato dai Carabinieri con l’accusa di spaccio di droga, il conseguente suo trasferimento nella Caserma dei Carabinieri per la notte, la convalida del fermo in tribunale, poi il ricovero prima in un ospedale, e poi in un altro, dove Cucchi finirà per morire.
Le accuse sono state tante prima verso i Carabinieri, la Polizia Penitenziaria che avrebbero “pestato” Cucchi nelle celle del Tribunale di Roma, e poi verso i medici che non avrebbero operato in maniera corretta per curare il ragazzo ricoverato.
“Le sentenze si rispettano” dicono tutti quelli che vogliono fare i garantisti, e allora perché scatenarsi contro i giudici che hanno in primo grado assolto gli agenti della Polizia Penitenziaria, condannando però i medici, e poi quelli che nel Secondo grado hanno assolto anche i medici?
Si accusa spesso la giustizia di cercare un colpevole qualsiasi costo, spesso commettendo gravissimi errori, tanto che l’Italia è costretta a pagare milioni di euro per il risarcimento a quelle persone arrestate o condannate ingiustamente.
Se però un giudice che non abbia ravvisato sufficienti le prove per ritenere dimostrata la responsabilità penale dei singoli imputati, assolve, diventa un complice, un servo di un sistema che è sempre pronto a “coprire” i suoi errori o a proteggere chi si comporta male.
Un delitto implica certamente un colpevole, ma non esige affatto una condanna comunque, soprattutto se non c’è la certezza della responsabilità dell’accusato.
Il famoso “oltre ogni ragionevole dubbio” formula del Codice, in questi casi ovviamente non merita alcuna considerazione.
Figuriamoci poi se per caso qualcuno sommessamente prova a dire che fin dai tempi dei Romani, nel Codice Giustinianeo, vi era una locuzione “in dubio pro reo” che stabiliva già allora, la possibilità per il giudice di assolvere l’imputato qualora le prove non fossero chiare e certe.
A mettere in dubbio la natura delittuosa della morte di Cucchi sono in pochi, e considerando come funziona ormai l’informazione, hanno avuto pochissimo spazio per esprimere le loro ragioni.
Meglio invece gridare allo scandalo, all’ingiustizia, ad accusare la Corte di “complicità” nel voler salvare i colpevoli, fino a parlare di “omicidio di stato”.
Per molti sarebbe stato molto meglio se quella Corte, le presunte prove presentate, se le fosse fatte bastare, arrivando ad una condanna senza andare troppo per il sottile.
Siccome non è andata cosi, si è scatenata l’”ordalia” di molti, che senza ovviamente aver letto una carta del processo, nè visionato alcuna delle perizie medico-legali richieste sia dalle difese, sia dall’accusa e anche dalla stessa Corte di Primo grado, fidandosi solo di un tamtam mediatico molto ben orchestrato, accusano i Giudici di non aver voluto fare giustizia di aver voluto “coprire” i veri responsabili.
Basti pensare soltanto come siano state esposte le foto dell’autopsia su molti social network, volendo far credere, che quelle foto rappresentassero le lesioni che Stefano Cucchi avrebbe subito.
Va fatta comunque una premessa. Il caso Cucchi dimostra, senza ombra di dubbio, come il sistema penitenziario, in casi come questo, non funzioni, o funzioni in maniera scoordinata, con competenza di diversi uffici, e su questo sono anni che le associazioni di volontariato che operano nei carceri lo denunciano.
Spesso i detenuti malati, anche gravemente, non possono ricevere adeguate cure, sia perché le carceri non sono attrezzate, sia perché la magistratura di sorveglianza è lenta a concedere arresti domiciliari o ricoveri in strutture ospedaliere esterne.
Il caso Cucchi rientra in questo contesto. Doveva per forza essere portato in carcere, visto il suo stato? Non sarebbe stato meglio dargli immediatamente i domiciliari? Visto anche che il tipo di reato lo consentiva?
La lesione alla schiena quando è avvenuta e ad opera di chi? Cucchi sostiene di essersela procurata da solo cadendo dalle scale, dando però due date differenti. La prima versione la colloca il giorno dell’arresto e quindi dove? Nella Caserma dei Carabinieri? Nelle famose celle dei sotterranei del Tribunale di Roma in attesa della convalida dell’arresto? Nella seconda versione, Cucchi, afferma che il fatto sarebbe avvenuto, ben quindici giorni prima, del suo arresto.
In molti hanno creduto che fossero stati gli agenti della Polizia Penitenziaria, dando per certo che Cucchi avendo paura di ritorsioni, abbia accreditato la classica risposta di “essere caduto o dalle scale”.
Prove di questo non ce ne sono state, e anche i presunti testimoni, non sono stati considerati credibili, tanto che la Corte d’Assise di primo grado assolve gli agenti della Polizia Penitenziaria.
Resta il problema dell’Ospedale Pertini, nel reparto custodia protetta, un eufemismo per dire che è una struttura sanitaria, che deve sottostare ai regolamenti penitenziari, stanze singole, controllate dalla Polizia Penitenziaria, con compiti di custodia, controllando gli accessi alle stanza ed essere presente anche quando entrano i sanitari e gli infermieri.
Qualsiasi richiesta di visita dei parenti o di colloqui con avvocati, da parte dei pazienti, deve rispettare le regole di un normale carcere.
Cucchi resta ricoverato in questa struttura, viene definito un paziente “problematico” perché ha un atteggiamento di rifiuto delle terapie, e qui improvvisamente una notte muore.
Le perizie medico legali, i consulenti dei vari imputati e delle parti civili sono concordi ad escludere che la morte sia stata causata dalle lesioni alla schiena, anzi, ma con motivazioni differenti hanno posto l’accento, sulla morte improvvisa, con pareri discordi sulle possibili cause, puntando in qualche modo su eventuali errori commessi dai sanitari del Pertini.
Se questa ipotesi accusatoria è stata accettata nel giudizio di primo grado, non ha convinto la Corte d’Assise d’Appello che ha giudicato l’operato dei medici senza errori.
Evidentemente i materiali presentati in giudizio dalle parti civili e dai pubblici ministeri non erano cosi probanti, da permettere ad una Corte attenta, di esprimere un giudizio di colpevolezza.
Ci sembra che in questo caso si sia giocato più sull’emotività, sulla ricerca dello scoop, sulle immagini ad effetto, che su una strategia giudiziaria puntuale e completa, sperando di trovare una Corte che avrebbe senza troppo indagare, accettato le tesi dell’accusa, cosi da chiudere il caso e togliersi di torno la “patata bollente”.
Condanna più condanna meno, come purtroppo avviene in molti casi, non avrebbe fatto la poi tanta differenza.
Il compito della giustizia è accertare la colpevolezza dell’imputato e conseguentemente condannare.
Non funziona al contrario.
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